Because sometimes my cloudy brain
remembers for one moment you were mine
Lee Hazlewood, For One Moment
Tra i film presentati nella sezione La Nuevas Olas del Festival de Cine de Sevilla due risultano particolarmente affascinanti e misteriosi, addirittura criptici, Mariphasa di Sandro Aguilar e Dead Horse Nebula di Tarik Aktaş.
Se il secondo arriva a avere una struttura di racconto più o meno lineare, benché non sia certo la sinopsi a essere interessante in questo film ironico e intelligente, il primo chiede allo spettatore di lasciarsi prendere dall’atmosfera cupa e seducente, ai suoni e alla situazione che ricorda quella di un sogno o di un incubo in cui diventa impossibile decidere con certezza se i personaggi che li abitano siano davvero “quei personaggi”, presenti “in quei luoghi precisi” e in “quel tempo esatto”.
Dead Horse Nebula si apre con un cavallo morto (quello del titolo). Da una ferita escono le viscere coperte di vermi che un bambino guarda quasi con attrazione, come spesso capita di fronte a uno spettacolo disgustoso, che riesce a catturare lo sguardo degli astanti come normalmente succede di fronte alla grazia e alla bellezza – e questa la dice lunga sull’ambiguità che separa e tiene uniti grazia e disgusto. Non è un caso che Rilke affermasse che «il bello non è che il tremendo al suo inizio» nelle Elegie Duanesi. Da quel momento in poi qualsiasi incontro tra l’uomo e la natura vede l’uomo in una posizione di debolezza, di scacco, quasi fosse incapace di controllare e dominare non solo il caso, ma il potere del tutto istintivo che risiede in un animale o in una folata di vento. Mentre l’uomo, attento a non fare errori e a seguire rituali e abitudini, si lascia costantemente sopraffare dalle situazioni più banali, la natura fa il suo corso, e lo guarda in maniera sarcastica e impietosa, come si guarda una piccola cosa che arranca pateticamente – lo sguardo del gufo alla fine è tanto più eloquente tanto più terrificante.
Sandro Aguilar con Mariphasa va ancora più lontano. Chi è il guardiano notturno la cui figlia è morta in tragiche circostanze? E la donna con cui intrattiene una relazione? E il vicino di casa che spia nelle sue perversioni? Ma sono personaggi reali o fantasmi? La bambina è l’incubo di qualcosa di terribile che incombe e potrebbe infine capitare? Così come il bambino spaventato che sembra fungere da monito e testimone? O la donna come immagine scatenante il desiderio e la paura (non è un caso che i rapporti siano tutt’altro che pacificati, ma violenti e disturbanti)?
Chi sono tutte queste persone che si aggirano nella notte, che è una notte senza fine, in spazi anonimi (anche la casa lo è), in solitudine anche quando arrivano a raggiungersi? Potrebbero essere la stessa persona (del protagonista e del vicino verrebbe da pensarlo, come fossero lo stesso uomo in momenti diversi della propria vita) che si pone di fronte ai suoi desideri e alle sue paure, che spesso coincidono, in un cortocircuito senza soluzione, che lascia nello spettatore la sensazione, uscendo dalla sala, di aver solo sognato o immaginato qualcosa di terribile e piacevole, dentro la quale sarebbe bello lasciarsi andare, se solo le conseguenze non fossero irreversibili. Eppure, tutto questo, chi lo sa se è già accaduto o se dovrà o potrà accadere.
E probabilmente non è importante poiché, come recita la canzone di Lee Hazlewood che chiude il film, For One Moment, «la ferita che ho inferto non è niente rispetto alle ferite che ho inferto in precedenza. Le cose che provo non le sento come le cose che ho provato in precedenza. E la solitudine e il vuoto e la disperazione vanno bene, perché qualche volta la mia mente annebbiata ricorda per un momento che sei stata mia».