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Tra i vanti del Festival de Cine de Sevilla, oltre all’ottimo programma, ci sono le retrospettive, pensate con intelligenza, grazie alle quali è possibile riscoprire veri e propri gioielli (quella integrale, lo scorso anno, dedicata a António Reis e Margarida Cordeiro, con tutti i film proiettati in pellicola) o prendere visione per la prima volta di vere e proprie perle, come Lejos de los árboles di Jacinto Esteva, nella retrospettiva “Rituales Encontrados”, quest’anno.

E sempre di quest’anno è la selezione dei film di Ula Stöckl – la Berlinale ha annunciato proprio in queste ore che a sua volta dedicherà alla regista tedesca e a altre realizzatrici donne la retrospettiva 2019.

Lo sguardo di Ula Stöckl sul femminino rimane un unicum nella storia del cinema, non solo tedesco. Se è possibile intravedere, soprattutto per le tematiche affrontate e per il potere “distruttore” della donna – cioè quasi anarcoide per la società dell’epoca – qualche somiglianza con Věra Chytilová, ben presto ci si trova davanti a un’autrice totalmente originale.

Un film come Neun Leben hat die Katze (The Cat Has Nine Lives, 1968) mostra con una certa precisione la vita di cinque donne: Katharina, Anne, Gabrielle, Magdalene e Kirke, legate dall’amicizia e soprattutto dal tentativo di liberarsi del ruolo imposto loro socialmente. Mentre gli uomini che le affiancano non sembrano nemmeno rendersi conto dei privilegi di cui godono in termini di libertà e scelta, le protagoniste si pongono costantemente la questione sulla propria felicità e il proprio appagamento.

Risulta quasi sconvolgente rivedere oggi un film come The Cat Has Nine Lives, poiché a distanza di cinquant’anni pare che quasi nulla sia cambiato. Al di là del Movimento #MeToo o delle tante dichiarazioni fatte in più di un anno – senza dubbio giuste e importanti ma che talvolta hanno portato a derive imbarazzanti, quali la richiesta di non esporre più i quadri di Balthus, della gogna mediatica riservata a Woody Allen, basata su fatti mai confermati e provati, alla cancellazione della retrospettiva Jean-Claude Brisseau – la parità tra uomo e donna sembra ben lontana dall’essere conquistata. Sembra pressoché assurdo doversi chiedere nel 2018 se la donna sia libera di desiderare come un uomo senza subire un giudizio sociale, di costume, morale.

Ma la modernità del cinema di Ula Stöckl non è solamente legata al fatto di affrontare tematiche purtroppo ancora attuali, ma al modo di rappresentare le pulsioni femminili, spesso sottoforma di flusso di coscienza o sogno. Questa caratteristica della sua poetica appare evidente in Der Schlaf der Vernunft (Sleep of the Reason, 1984) in cui si assiste a un progressivo delirio della protagonista. Benché emancipata, Dea (che sta per Medea), non riesce a liberare lei e le altre donne che la circondano (la madre, le figlie, le amiche) dalla cultura patriarcale e machista nella quale sono totalmente immerse.

La madre non fa che cucinare, la figlia sogna il matrimonio e la stessa protagonista continua a rimpiangere un uomo che se n’è andato e ora ha una relazione con una collega. E tanto più i sentimenti di frustrazione prendono il sopravvento, poiché la vita desiderata somiglia sempre più a quella immaginata da un uomo per una donna, senza lasciarle scampo, quanto più Dea inizia a vivere le sue pulsioni in un mondo onirico.

Ancora una volta il cinema arriva dove la realtà sembra aver rallentato il passo. Un film può servire da monito e da suggerimento. Nel caso di Ula Stöckl sembra esserci anche l’augurio di poter finalmente vivere in una società che cambi radicalmente il suo rapporto con l’Immaginario e il Simbolico, a favore di un cambiamento netto dei ruoli e dei desideri.