Questa sera su Iris (canale 22) alle 21:00 il film che si posizionò al decimo posto nella nostra classifica dei migliori film del 2013, vincitore di 7 statuette ai premi Oscar del 2014, tra cui quello per la miglior regia: Gravity di Alfonso Cuarón. Pubblichiamo la recensione scritta per il sito da Fabrizio Tassi (su Cineforum 529 potete trovare l'articolo scritto da Rinaldo Vignati).
“Life in space is impossible”. Ma anche sulla Terra non è facilissima. Forse serve un certo distacco per ritrovare la voglia di provarci. Tipo orbitare intorno al pianeta e finire nello spazio alla deriva, con vista mozzafiato sull’aurora, o il Gange, o quel luogo sperduto nell’Illinois, mentre il peso del passato ti trascina giù, anche in assenza di gravità.
Succede a George Clooney - nella parte di se stesso: chiacchierone, sbruffone, irresistibile - e a Sandra Bullock, la protagonista della storia, che rimane appesa a un cavo, una specie di cordone ombelicale, e deve trovare un motivo per tornare a casa, nonostante tutto.
Inizio panoramico e magico, nel silenzio più totale. Due personaggi (solo due, a parte la "voce di Houston"). Poi chiacchiere e avventura (un disastro spaziale), tensione, emozioni, e ancora silenzio, fuori e dentro quella tuta ingombrante, che permette di respirare senza ossigeno e che Sandra Bullock si toglie in una danza liberatoria e sensuale, una delle scene più belle del film, con metafora inclusa, perché si parla pur sempre di vita, morte e rinascita.
Gravity è un film sorprendente (in positivo). Alfonso Cuarón è riuscito a dosare gli elementi con cura: l’azione e la contemplazione, il dramma e l’understatement “cloonyano” (c’è un colpo da fuoriclasse nel pre-finale), la suspense e il dolore sincero. Alla fine senti davvero la fatica e la gioia della gravità. Perché prima hai percepito il vuoto, la bolla esistenziale dentro cui vive il personaggio interpretato da Sandra Bullock (altra bella sorpresa), che deve spogliarsi della vecchia vita per ritrovare un senso, un peso.
Tutto questo dentro un film che al di là dei simboli espliciti, i lirismi (una lacrima che vaga senza gravità), le battute inevitabili (Clooney: «Lo so che mi trovi irresistibile»), riesce a farci amare quei due personaggi alla deriva. Riesce perfino a riconciliarci con il 3D, che disegna una profondità in cui si può cadere all’infinito e consente di percepire meglio quella dimensione in cui non c’è orizzonte e le cose non hanno resistenza. Meta-fisica.