Questa sera alle 21.15, su Sky Arte, andrà in onda in prima visione Ex Libris - The New York Public Library, il film che Fredrick Wiseman ha dedicato alla New York Public Library: un documentario su una delle più grandi istituzioni culturali americane, nonché specchio del rapporto fra istituzioni e cittadini in quel Paese. Riproponiamo la recensione di Pietro Bianchi dalla Mostra di Venezia del 2017, dove il film partecipò in concorso.
“Le biblioteche sono i pilastri della nostra democrazia” diceva Toni Morrison, e Frederick Wiseman sembra non pensarla molto diversamente dato che presentando questo film ha detto che la biblioteca è la più democratica di tutte le istituzioni, quella che accetta tutti senza differenza di classe, status, razza e i cui servizi non vengono erogati in cambio di denaro. Democrazia, si sa, è un parola scivolosa e lo è tanto più nella storia americana dove è stata utilizzata indifferentemente dal Roosevelt nel New Deal e da George W. Bush durante la guerra in Iraq, dai sindacati degli UAW e dai braccianti di Cesar Chavez ma anche dal Reagan che ha smantellato lo stato sociale. Eppure è chiarissimo che cosa voglia dire democrazia alla New York Public Library, la più grande istituzione bibliotecaria americana seconda solo alla Library of Congress e soggetto dello splendido nuovo film di Fredrick Wiseman Ex Libris - The New York Public Library: democrazia è ciò che nomina un processo di inclusione e di messa in discussione delle diseguaglianze sociali che attraversano la società americana. Non solo quindi un’istituzione dove la cultura viene “divulgata” o dove i libri vengono conservati, ma un vero e proprio laboratorio di politiche di progresso sociale a tutti i livelli.
Con 92 sedi sparse in giro per la città di New York (ma attenzione, parliamo solo di metà della città – di Manhattan, Staten Island e Bronx – mentre Queens e Brooklyn, due dei borough più popolosi della grande mela, hanno due sistemi separati) la New York Public Library è uno dei più grandi termometri di quello avviene nella città “dal basso”. Lo vediamo quando Wiseman ci porta dentro la Jerome Park Library, uno dei branch dell’alto Bronx in una delle zone socialmente più difficili di tutta la città, dove vediamo un incontro in cui l’esercito americano, i pompieri o anche aziende private di costruzioni vanno a reclutare dei lavoratori di fronte a un pubblico che ha tutta l’aria di vivere in condizioni di grave marginalità sociale. O quando in un incontro alla Andrew Heiskell Braille and Talking Book Library, la biblioteca per non vedenti e non udenti, viene spiegato ai propri utenti la differenza tra low income housing e affordable housing per capire quali sono i diritti delle persone disabili nel momento in cui devono cercarsi una casa. Ma lo vediamo anche quando durante un incontro dell’amministrazione ci si domanda come comportarsi con i moltissimi homeless che vengono in biblioteca semplicemente per stare un po’ al caldo o per dormire (e che a New York sono una vera e propria emergenza sociale). Le biblioteche newyorkesi sono insomma dei veri e propri presidi di un’America dal forte spirito egualitario, che considera la libertà non soltanto “another word for nothing left to lose”, ma che la libertà necessiti di processi di socializzazione di cultura, saperi ma anche risorse, formazione, welfare e possibilità di collocamento. Si tratta davvero di un istituzione pubblica a tutto tondo che il film ci mostra in tutto il suo splendore e con una condivisione della mission dell’istituzione che questa volta Wiseman pare sposare senza alcuna esitazione.
Wiseman, come spesso accade nei suoi film, decide di adottare un approccio corale e collettivo, dove si passa dalle biblioteche dell’alto Harlem, come la Macomb’s Bridge Library all’incrocio tra Adam Clayton Powerll Jr Ave e la 151esima strada, dove le bibliotecarie conoscono i ragazzi per nome, all’enorme e un po’ spersonalizzante sede centrale di Manhattan dove avvengono la maggior parte delle discussioni dell’amministrazione e dove gli “incontri con gli autori” riguardano super-star del mondo della cultura del calibro di Richard Dawkins e Edmund de Waal. Questo Wiseman così positivo nei confronti dei soggetti dei propri documentari è infatti uno dei portati degli ultimi anni, in cui il regista americano si è messo a raccontare alcune delle migliori istituzioni “progressive”: la National Gallery, l’Università di Berkeley ma anche i comitati di quartiere di In Jackson Heights. C'è infatti un’altra parola altrettanto scivolosa di democrazia con cui questo film si confronta. Ed è la parola istituzione. Wiseman che aveva iniziato la sua carriera con delle narrazioni “dal basso” che non avevano paura di prendere posizioni anche molto dure contro le politiche repressive delle istituzioni carcerarie, educative, o persino delle fabbriche ha mano a mano sfumato e reso un po’ più accomodanti i suoi approcci. Ed è arrivato con At Berkeley o con questo Ex Libris - The New York Public Library a comporre dei veri propri cantici del lavoro sociale e dell’intelligenza collettiva messi a valore in un’istituzione pubblica.
È difficile infatti pensare all'aspetto disciplinare (che forse non mancherebbe) di un’istituzione dove si possono sentire trascinanti lezioni sui murales di Diego Rivera, o riflessioni sulla tradizione anti-schiaviste delle cultura islamica, o dove è persino possibile vedere un’appassionatissima giovane insegnate spiegare come l’anticapitalismo sudista di un ideologo come George Fitzhugh non avesse nulla a che vedere con quello dei socialisti (ma che anzi, Marx avesse molte più cose in comune con un liberale come Lincoln). Non sappiamo se il termine “pensiero critico” colga appieno questa dimensione libera e anti-conformista della New York Public Library, ma è certo che un enorme quantità di pensiero radicale venga custodito e divulgato da questa istituzione. E tuttavia, come sempre, ciò che colpisce di Wiseman è l’approccio alle persone che vengono filmate e rappresentate. Forse perché dietro a quella scelta così radicale di dover essere rispettosi nei confronti dei propri interlocutori vi è l’idea che ciò che faccia la differenza sia considerare anche il soggetto più umile e marginale come intelligente, maturo e degno di essere ascoltato. Edmund de Waal nell’ultimissima scena del film parla proprio di questo: dell’importanza del processo nel fare le cose molto più che del risultato finale; perché the manner of what we make defines us («perché il modo con cui facciamo le cose dice chi siamo»).