Da diversi anni, da quando ha scelto di girare tutti i suoi film con una Mini-DV e in forma di diario o di confessione, il cinema di Alain Cavalier si confronta con il limite di una visione consapevolmente incerta della realtà. Nel metodo creativo di film come la serie Six portraits, come la confessione autobiografica Irène o ancora la cosmogonia dello sguardo Le paradis, si coglie la foga, forse la disperazione di un autore che filma tutto per paura di non cogliere nulla. Immediati, slabbrati, liberi, per quanto sapientemente costruiti al montaggio, i lavori di Cavalier registrano il tormento di un’anima perennemente alla ricerca di un dialogo con l’invisibile.
Lo dimostra il fatto che lo stesso regista sia sempre presente in scena, specchiato nei vetri o negli schermi di un computer. Come corpo, come voce, come sguardo che nomina le cose mentre le filma, quasi queste non si facessero intendere dallo spettatore. Cavalier non crede nell’immagine, o meglio vi crede in virtù del legame che egli stesso instaura con il suo dispositivo.
Come dice nel film-diario del 2005 Le filmeur (non metteur en scene, attenzione: filmeur!), «la vera difficoltà nel scegliere e organizzare le immagini sta nel cogliere il non-detto e dargli valore». Nelle sue mani, perciò, la mini-DV diventa un tramite, uno strumento con cui il poeta con la macchina da presa trova nella realtà corrispettivi della sua condizione, specchi, tramiti, passaggi per una dimensione trascendente a cui solo la parola in realtà ha accesso.
Inevitabile, da questo punto di vista, che la morte sia il soggetto principale di quest’ultima fase della sua carriera, il convitato di pietra delle sue immagini. In Être vivant et le savoir protagonista è il ricordo di Emmanuèle Bernheim, scrittrice morta di cancro nel maggio 2017 (dal suo Vendredi soir Claire Denis trasse l’omonimo film) con la quale Cavalier avrebbe dovuto realizzare un film tratto dal suo romanzo autobiografico Tout s’est bien passé. Non una trasposizione, ma, sulla falsariga di Pater, documentario sul rapporto vero/falso tra Cavalier stesso e Vincent Lindon, una reinterpretazione dei rapporti raccontati nel libro con la stessa Bernheim nella parte della figlia e Cavalier in quelli del padre.
Il tempo e la malattia hanno lasciato incompiuto il progetto e ora Cavalier lo riprende in mano, non per darvi una forma compiuta, ma per esorcizzare la perdita dell’amica. Al montaggio osserva Emmanuèle, mostra le loro conversazioni, legge passaggi dei suoi libri, allenta il legame coi ricordi provando a filmare dal nuovo e di nuovo. Le statuine di ceramica, le tazzine, i libri, qualsiasi cosa entri nel campo visivo della mini camera, se osservato da vicino o descritto da Cavalier, apre a un dialogo dolce e impossibile fra l’autore e la realtà. Il principio di Cavalier è del tutto arbitrario ma la genesi del suo cinema è così intima da commuovere.
Être vivant et le savoir è una sorta di personalissimo, doloroso esercizio di ricalibratura; a suo modo, una preghiera.