Perché questa rubrica e questo titolo? In uno dei celebri sketch di Roberto Benigni nei panni del critico cinematografico intervistato e irriso da Renzo Arbore durante lo show televisivo L’altra domenica il film da recensire era Cristo si è fermato a Eboli. E come in ogni striscia il Benigni sedicente critico non riesce a dir nulla sul film perché si perde nei preamboli o non l’ha neanche visto. Nel fantomatico racconto della prima del leviano Cristo di Rosi questo critico neanche tanto sui generis menziona spesso tra gli ospiti di spicco l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini il quale, anziché concentrarsi sullo schermo, rivolgeva lo sguardo sui calcinacci caduti dai muri della sala. Ecco, la rubrica I calcinacci parlerà di film che da soli non riescono a intercettare completamente l’attenzione; donde proverbiali calcinacci di Pertini o i controsoffitti all’occorrenza più interessanti delle immagini proiettate.
Allora perché non intitolarla I controsoffitti, con lo stesso spirito? L’espressione I calcinacci suona più appropriata come indicazione metodologica un po’ demodé; con l’augurio a questi pezzi d’intonaco che sopperiscono ai film di non diventare l’equivalente di una decadenza del cinema, a causa dell’incuria linguistica, l’eccessiva tendenza a spiegare ogni passaggio narrativo per allungare il brodo o serializzare la visione, della prosopopea d’autore tradotta volentieri in ipertrofia inutile o ostentazione della durata. Questi lontani “calcinacci”, o in alternativa gli attuali “controsoffitti”, sono uno strumento distensivo e sostenibile per chi voglia riuscire malgrado tutto a vedere o reggere per intero un film: nella demotivazione che ne deriva, un antidoto all’impulso di abbandonare la sala che offre uno spettacolo parallelo per chi soffra lì per lì di sensati disturbi dell’attenzione.
Non è una rubrica di stroncature. I film vanno compresi tutti come pratica terapeutica inclusiva e non violenta, anziché giudicarli nella misura in cui corrispondono più o meno alle aspettative. Di fronte a uno schermo illuminato che da solo nel buio non irretisce l’interesse dello spettatore, non c’è migliore supporto visivo dei fisiologici calcinacci o i controsoffitti provvidenziali? I film che si contendono il piacere del testo con la preferenza accordata invece a calcinacci e controsoffitti come elemento focale e riparativo dopotutto vanno compresi. La colpa, se un colpevole c’è, in fondo va attribuita a chi malauguratamente vede e, alla lettera, non “capisce” e perciò legittimamente si distrae. Avere un bersaglio focale, come un piano B, è quindi per il pubblico o i critici possibilmente autoironici un provvidenziale appiglio nel buon compresso.
Nella rubrica non saranno pertanto esplicitati titoli o autori specifici perché, nel rispetto degli stessi, sarà il discorso che li riguarda a contare più dei singoli casi individuati. Al massimo spetterà al lettore, se lettori volenterosi ci saranno, indovinare di che eventuale film o regista si tratta. Senza alcuna garanzia o conferma di averci visto giusto. Pochi indizi, sufficienti o insufficienti, saranno forniti tuttavia nel rispetto delle regole di un gioco sleale.
A cominciare dal caso di questa prima puntata, vale a dire di un film abbastanza recente che giustifica tutti i calcinacci possibili del mondo o i controsoffitti. L’autore, compiaciuto della propria notorietà e del vuoto che lo affligge, ha l’abitudine di intercettare il complementare vuoto spettatoriale dominante e fa così il pienone in sala. Ha talmente alzato l’asticella del proprio ego turbato da ansia di invecchiamento da costruire persino un personaggio con un nome non simbolico ma desunto direttamente da un detergente intimo femminile. Con un risultato, va da sé, più prostatico che poetico.