Tutsi o Hutu, che importa quando sono in così tanti a morire?
La colpa al solito ricade sull'Europa. Basandosi sull'aspetto fisico, soprattutto sulla diversa altezza, i conquistatori prima tedeschi e poi belgi di Ruanda e Burundi fecero l'errore di considerare questi gruppi come delle rigide divisioni razziali. Solo perché i Tutsi erano più alti e più simili a un tipo causasico, oltre che più ricchi e compiacenti nei confronti del potere. Ecco quindi che vennero favoriti rispetto agli Hutu, più bassi, e soprattutto gli Twa, l'ultimo gradino della società, ancora più piccoli, simili ai pigmei.
Dopo sanguinose rivolte e massacri, gli Hutu, con l'accordo dei belgi, presero il potere nel periodo compreso tra il 1959 e il 1962 e iniziò la lunga persecuzione dei Tutsi. Molti di loro fuggirono nei paesi limitrofi, soprattutto in Uganda, ma le vittime furono tante: c'è chi parla di 800.000, chi di un milione di morti. Fu la reazione degli Hutu più poveri alle angherie subite per anni. Poi nel 1994 il colpo di coda dei Tutsi. In seguito ai disordini circa 80mila Hutu fuggirono dal Ruanda verso lo Zaire e si persero nella foresta. Il loro destino ancora oggi è un mistero irrisolto.
In Kisangani Diary Hubert Sauper viaggia con una macchina da presa su di un treno delle Nazioni Unite alla ricerca di questi “rifugiati perduti”. E li trova.
Proprio il giorno dopo l'ennesimo massacro.
Immagini a bassa definizione e ad altissimo tenore emotivo. Occhi grandi e sgranati dalla paura. Facce mute eppure così eloquenti nel dichiarare la propria innocenza. Due bambini magrissimi e tremanti condividono uno stesso scatolone durante un'accesso diarroico. Una natura matrigna.
Molti spettatori qui a Innsbruck abbandonano la sala perché non sopportano queste visioni. Il male nel fango della giungla. Un film più spaventoso del più verosimile degli horror. Perché qui il mostro esiste ed è tra di noi. Ogni giorno.
E se in Pelo Malo della venezuelana Mariana Rondon c'è ben altro dietro il desiderio inappagato di Junior, suo figlio adolescente, di avere i capelli lisci e non ricci, come gli rimangono nonostante ogni tentativo, anche comico, nel più interessante Muallim (L'insegnante) di Nosir Saidov (Tajikistan, 2014) i desideri non corrisposti appartengono ad ogni comprimario. A Samadar, unico maestro del villaggio, che vorrebbe fare di più per i suoi allievi; a suo padre Nazar, già insegnante e ora invalido, che attende da sette anni il ritorno a casa dell'altro figlio, Yusuf, prima di morire, anche se si è già anti-tradizionalmente fatto scavare la fossa sulla collina sopra il paese; alla giovane e bella madre di una delle allieve di Samadar, che invece teme più di tutto il ritorno dall'estero del marito, rozzo e violento nei suoi confronti.
Dallo stalinismo al potere di un islam pettegolo, ottuso e nemico di ogni forma di progresso come dell'emancipazione della donna: che futuro può attendere questa ex repubblica sovietica?
E se c'è paura endemica di malavita e violenza in genere nel volutamente surreale Malacrianza di Arturo Menéndez, primo feature film dopo più di 40 anni prodotto in El Salvador, se c'è terrore nei contadini costretti dalla malavita a coltivare Veve nei loro campi in Kenya, la pianta da cui si ricava il Khat, anfetamina per poveri che comincia a diffondersi anche da noi qui in Italia, in Veve – When truths reveal themselves too late di Simon Se'ydou Mukali (Kenya/Germania 2014), la paura che scava più nel profondo è quella che ci comunica il protagonista di Vegetarian Cannibal di Branko Schmidt, un ginecologo molto vicino al “bad lieutenant” di Abel Ferrara.
Innamorato del proprio corpo, del possesso di status symbol come di un narcisistico senso di onnipotenza, nel lavoro come nella vita privata, Rene Bitoraja compie il suo salto di qualità quando l'amico, un corrotto ispettore di polizia, gli presenta il capo del quartiere a luci rosse di Zagabria, una sorta di zar del sesso a pagamento, che sfrutta ai suoi fini la povertà di bellissime ragazze provenienti da Russia, Ucraina, Romania e Bulgaria. Molte di loro hanno rapporti con i personaggi più ricchi e potenti del paese e, se rimangono incinta, ci vuole qualcuno che si occupi di loro.
Con un montaggio velocissimo, un plot semplice ma di efficace mise en abyme, il suo affidarsi fiducioso ad una fotografia acida e leggermente sovraesposta, i movimenti di macchina veloci ma sempre perfettamente intelligibili, il suo non lasciare mai la preda, come in un combattimento di cani, Vegetarian Cannibal non fa sconti allo spettatore, accompagnandolo con mano apparentemente gentile, in realtà spietata, nella discesa agli inferi di un uomo assolutamente normale. Un vero “dirty movie” per una sempre più “dirty society”.
To be continued...