È giunta la fine anche di questa 24ª edizione dell'Internationales Film Festival di Innsbruck e, come di consueto, le differenti giurie hanno emesso il loro verdetto.
Quella universitaria si riconosce in Revolution Museum di Nataliy Babintseva (Russia 2014), un piccolo e indipendente documentario che gioca sul valore intrinsecamente ossimorico del suo titolo: la rivoluzione che viene per cambiare il mondo, il museo che è teso invece a conservarlo. E d'altronde sono proprio “pezzi/avanzi di rivoluzione” al centro di questa innovativa forma di esposizione.
Una lampadina, inedita bomba molotov, o vecchi pneumatici usati come barricate, oggetti abbandonati dai manifestanti in Majdan Nezaležnosti, piazza dell'indipendenza a Kiev, sono oggi trasformati in performance, happening, installazioni artistiche. E nel film diventano segno/simbolo di una “manifestazione”, con tutti i significati legati al mondo della comunicazione piuttosto che a quello più squisitamente politico, che riusciamo ad immaginare.
Premio del pubblico, probabilmente anche per l'impegno sociale, a Horizon Beautiful del giovane regista svizzero Stefan Jaeger, una storia di calcio e speranze, ma sarebbe meglio dire illusioni, dure a morire anche qui nel cuore del Corno d'Africa.
Lucidamente fotografato dall'affermato cinematographer Abraham Haile Biru in stretta collaborazione con gli allievi della Blue Nile Film and Television Academy, l'unica scuola di cinema presente in Etiopia, Horizon Beautiful fa riflettere sia per la storia che racconta, sia per come sceglie di raccontarla.
I premi principali delle due giurie ufficiali vanno invece per la fiction a Muallin (L'insegnante) di Nosir Saidov, di cui abbiamo già detto altrove, e per il doc a La sirene de Faso Fani di Michel Zongo (Burkina Faso, Francia, Germania 2014), un bel documentario sulla storia della più importante manifattura di tessuti della città di Koudougou, la terza per importanza nello stato prima indicato come Alto Volta. E se il regista ci racconta che da piccolo si sorprendeva ad ammirare e invidiare gli operai eleganti nella loro divisa blu al di là dei cancelli, suo zio, oggi anziano, gli conferma che era difficile trovare in città una donna “decente” disposta a sposarti se, durante il primo appuntamento, veniva fuori che non lavoravi a Faso Fani.
Poi dal 2001, grazie alle decisioni prese dal Fondo Monetario Internazionale e soprattutto dalla World Trade Organization, la soluzione è stata quella di liquidare questo grande opificio produttivo di merce di qualità e che garantiva benessere e sviluppo a tutta una società. Per quale motivo? Perché era inaccettabilmente gestita dallo stato, e invece era nell'iniziativa privata che la politica aveva deciso di investire. Peccato però che ci si fosse dimenticati di favorire prima la nascita di un'ancora inesistente classe borghese.
Oggi a distanza di quindici anni la situazione è notevolmente peggiorata: disoccupazione diffusa, parcellizzazione estrema delle attività di tessitura residue, disperse in ogni cortile e regredite praticamente all'età della pietra, salari ancora più bassi per chi ancora ha un lavoro, mentre su alcuni cominciano purtroppo a manifestarsi i primi effetti a lungo termine delle malattie professionali, legate soprattutto ai prodotti chimici utilizzati nei bagni di tintura delle stoffe.
Di fronte a tutto ciò si può decidere di lamentarsi, lasciandosi andare alla depressione, oppure impugnare una macchina da presa e pensare a come uscire da questa brutta situazione.
“Per l'imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”. Ed è seguendo l'esempio del grande e oggi purtroppo scomparso presidente di questo paese, il cosiddetto Che Guevara africano Thomas Sankara, che il regista Michel Zongo non si limita a girare questo film ma, insieme, getta i semi di un'inedita forma di cooperazione che parta dal basso, organizzando il lavoro di tante donne, prima isolate, in un unico luogo e con tanti anziani, fisicamente ormai meno forti ma tecnicamente molto esperti, in grado di fornire loro le basi per una corretta formazione.
Menzioni speciali, infine, del tutto estemporanee e non previste, alla stupefacente interpretazione di Rene Bitorajac/Danko Babić, in Vegetarian Cannibal, di cui già abbiamo scritto, e, per il miglior contributo artistico, a Malacrianza di Arturo Menendez (El Salvador, 2014), un film a budget zero che fa i conti con la diffusa endemica perniciosissima cultura criminale che pervade ogni parte della società in questo paese del Centro America.