Chissà perchè. Non lo so davvero, ma quando penso a questo festival, a questa edizione di IFFI 2016, mi vengono in mente due foto scattate pochi giorni fa a quasi duemila chilometri di distanza da Innsbruck.
La prima è quella di una spiaggia del mediterraneo in Calabria, a pochi km dalle coste Siciliane.
Il cielo è contrastato. Le nuvole incombenti. Le tre zone di esposizione variano solo leggermente il loro pattern, riverberando le une i toni delle altre, vedi la schiuma bianca e sottile che producono le onde versus la spumosità eterea delle nubi su tutto l'orizzonte. Sulla terra poi domina il grigio. Riposante. Se non fosse per quei dettagli bianchi e inquietanti abbandonati sulla riva dalla risacca.
Sono natura e cultura. C'è il ramo secco e sbiancato da cento soli e la sdraio di plastica rotta e abbandonata perché non serve più. Come non pensare allora ad “altro” che il mare, questo stesso mare, in questi giorni ci restituisce?
L'altra foto è completamente differente. Profondamente ctonia (“appartenente alla terra”, sotterranea certo, ma anche palesemente rivolta all'elevazione mistica, basti pensare al legame delle antiche religioni con la dea madre) e rappresenta una particolarità botanica piuttosto negletta: il Castagno dei Cento Cavalli, uno dei più antichi esseri del pianeta, oggi protetto anche dall'UNESCO e che conta circa 2000 anni di vita. Con i suoi 22 metri sia di altezza che di diametro di un tronco ormai quasi invisibile, questo albero emana un fascino, direi più precisamente “produce attorno a sé un'atmosfera”, difficilmente eludibile per chiunque vi passi accanto.
Storia, passioni, guerre, terremoti ed eruzioni (il castagno si trova nei pressi del paese di Sant'Alfio sulle pendici dell'Etna) non lo hanno semplicemente “risparmiato” per due millenni. Gli sono passate accanto e si son lasciate giudicare da lui. Questo albero è un testimone. Un testimone muto, anche se tremendamente eloquente, della cosa più importante che concerne la vita, e cioè la memoria.
Ma che cos'è il cinema, o almeno il cinema che condividiamo durante questa settimana di maggio a Innsbruck, se non un omaggio alla memoria? Il cinema come denuncia certo, come emozione, come catalizzatore di sentimenti, ma dai tempi di Auguste e Louis Lumière, soprattutto come documento, come fonte imprescindibile di informazione e quindi anche di trasmissione della conoscenza e della memoria.
La memoria che ci parla dalle “emergenze” architettoniche del passato, come questa ex-prigione militare fotografata a Peschiera del Garda, all'alba, dalla Vespa, durante il viaggio di avvicinamento di quest'anno ad Innsbruck. Una memoria che chiude.
O sul lago di Garda dalla parte trentina. Un panorama che si apre e ci introduce a qualcosa di nuovo. Una memoria che produce, collabora a costruire – con noi e per noi – una “nuova visione”.
E qui all'Internationales Filmfestival Innsbruck gli essai, le prove, gli esperimenti, i tentativi sono tanti. Tutti lodevoli. Alcuni, certo, più riusciti di altri.
Come nel caso di Girls Don't Fly di Monika Grassl (Germania, Austria 2016), uno strano documentario indeciso tra il rapimento estetico (spesso insidioso freno di questo giovane cinema d'oltralpe), l'empito buonista e una giusta tensione verso l'autentico al di là del positivo e glamour a tutti i costi.
In Ghana la donna è considerata esclusivamente come “angelo del focolare”. Deve sposarsi molto presto e occuparsi della famiglia. Che senso può avere per lei andare a scuola, guidare una macchina o, ancora peggio, magari pilotare addirittura un aereo?
Contro questo pregiudizio si scagliano coraggiosamente l'inglese e bianco Jonathan Porter e sua moglie, la ghanese (e bellissima) Patricia Mawuli, fondando una scuola esclusivamente per giovani piloti donna. Non importa il censo, ne' la provenienza sociale. Per Porter conta solo il merito e la voglia di riuscire. Commovente poi il fatto che alla scuola trovi posto anche Lydia, una giovanissima allieva estremamente motivata, ancorché disabile, e che vuol diventare la prima pilota donna di grandi aerei nel paese.
Ecco, qui il critico deve usare la sua “scatola degli attrezzi”, per decidere che pesci pigliare.
Detto così infatti il film potrebbe passare per l'ennesimo spot di belle speranze girato su commissione per qualche meritoria ONG al lavoro in Africa, ma che succede se Porter in realtà si rivela durante lo svolgimento del film un fanatico della disciplina più simile al sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, che al padre affettuoso che potevamo immaginare?
Davanti ai nostri occhi si apre una ferita, come quella che trovo scavata in un prato già in Austria sulla mia strada dopo il Brennero nei pochi km che mi separano dalla “capitale delle Alpi”.
Le speranze delle nostre protagoniste si scontrano con la realtà di un buffone dall'io ipertrofico ossessionato dall'ansia di successo ancor più che dai suoi fantasmi.
E il documentario, come si suol dire, “prende il volo”.
Almeno lui. Visto che improvvisamente Porter e sua moglie in seguito ad alcune difficoltà, tornano improvvisamente nel Regno Unito abbandonando e se stesse le povere, illuse e maltrattate studentesse.
Decisamente non l'happy-ending che ci aspettavamo.
Ma non è forse l'onesta del racconto il premio che uno spettatore, oggi, sempre più preso in giro dagli altri media, in fondo, si merita?