Una fredda mattina milanese attende la presentazione de Il ricco, il povero e il maggiordomo, il nuovo film di Aldo, Giovanni e Giacomo. La calca di stampa solerte attende l’apertura della sala, cercando discretamente le sagome dei protagonisti, che stringono qualche sconosciuta mano e si prestano all’oramai inevitabile momento selfie, mimetizzandosi tra la folla impaziente.
La proiezione è accolta da un caloroso e fischiettante (in senso buono) battimano, che si protrae fino all’inizio della conferenza stampa. Entra per primo Giacomo, in un girocollo nero, scuotendo allegramente i baffetti in segno di amicale saluto, seguono gli altri: oltre a Giovanni e Aldo, due delle attrici donne, la medio-famosa centovetrinista Sara D’Amario, che interpreta la moglie di Giacomo, e la spagnola caliente Guadalupe Lancho, promessa sposa di Giovanni, all’esordio italiano.
Subito Giacomo, una battuta per stemperare la tensione e abbattere l’ideale quarta parete: «È stato un problema di casse. Aldo ha lasciato qui quelle di suo figlio ieri sera». Ed è la volta della stampa, che non percuote al ritmo incalzante del film ma si piega a una timida successione di domande.
La prima, puntuale e condivisibile, si interroga (quasi stigmatizzando i più recenti risultati come La banda dei Babbi Natale) sul taglio innovativo di quest’ultimo lavoro, che mostra e dimostra una sceneggiatura più forte, un ricorso meno marcato al cliché e un ritorno all’origine, alla freschezza e alla spontaneità che lanciarono il trio ai tempi di Tre Uomini e una gamba. Il merito è, a giudizio unanime, da accordare a Morgan Bertaccia, affezionato collaboratore oggi promosso a co-regista, che a sua volta esalta l’appassionante e coinvolgente amalgama comica dei tre.
Il ruolo della crisi, che sovverte il regime economico, tanto da esasperare o livellare la forbice sociale, è in questo film una suggestione, uno spunto per indagare l’avidità, che sempre più si radica in ognuno e può portare alla catastrofe.
Non siamo di certo di fronte a una tragedia, qui non ci si piange ma al massimo ci si ride addosso: la ghigliottina che si abbatte sul ricco (e sul suo maggiordomo) favorisce un rovesciamento carnevalesco spesso brillante, dotato di una polifonia ardita, anche grazie alla multiculturalità delle lingue che si affastellano nei dialoghi. Ma il sostrato “profondo” del testo sembra fondamentale per gli interpreti, che dicono di voler arrivare al cuore delle persone.
E’ quasi sempre Giacomo a parlare, Giovanni lo sostiene con un «è stato esaustivo» che diventa un gioco comico («cerco da stamattina la parola esaustivo sul dizionario e non vedevo l’ora di usarla»). C’è spazio per una dissertazione sulla scelta delle colonne sonore (da Emis Killa a Julio Iglesias), per la personale classifica di Giacomo che innalza l’ultima fatica ai livelli di Chiedimi se sono felice, per qualche flebile battuta dell’inaspettatamente timido Aldo – «Nel film interpreta un Tombeur de Femme», «Un Tombin de femme, vorrai dire» – e per l’afasia generale della platea dopo gli ennesimi complimenti.
«Altri complimenti?» chiede Giacomo prima di congedarsi, forse sospinto dall’istinto della fame. «No, dunque, volevo chiedere…però io non vi faccio i compliment». «E allora perché parli, scusa?». Ecco, bravo, appunto. Meglio rimandare altri discorsi e altre parole, e aspettare i risultati del film in sala. Per il momento è stato esaustivo.