Resta come un film dell'impassibilità, 2001: Odissea nello spazio, la scrittura di un'ontologia del futuro che arriva ancora oggi a noi come una matrice immota nel tempo, tanto avanti da essere un archetipo per qualsiasi immagine dell'avvenire che non sia il precipitato di una visione distopica. Impassibile come l'occhio polifemico e ubiquo di HAL 9000 accecato da David Bowman e, soprattutto, come il monolito che si presenta al tavolo dell'umanità, vero e proprio convitato di pietra che insiste sul presente per terminarlo, per consegnarlo ai passaggi di stato dell'evoluzione. Ci si potrebbe chiedere se il monolito possiede un volume, se appartiene alla geometria solida o a quella piana. Se è davvero un oggetto tridimensionale, come pure appare chiaramente, o è solo una superficie piatta. Certo è che la sua natura non sembra rispondere a un’esigenza dinamicamente spaziale: il suo è un opporsi frontale, la sua superficie è osservata, lambita, toccata, così invidiabile e tremendamente desiderabile nella sua presenza impassibile e anodina... Fosse una porta, almeno si aprirebbe e mostrerebbe il varco, ma così com’è – tetragono e imperativo – non offre alcuna profondità in cui entrare, non porge nessuna terza dimensione in cui essere accolti. Fa quasi rabbia per la sua inalterabile, violenta, determinazione. Sta lì, come sul cuscino di William Harford starà, trent'anni dopo, la maschera di Eyes Wide Shut, anch'essa indice di un passaggio di stato, catalizzatore di una evoluzione, del doppiosogno reale/onirico nel quale il protagonista sprofonda, altro Odisseo in cerca di se stesso e di un ritorno a casa impossibile.