“Bisogna liberarsi della tirannia del tempo presente, del lavoro che prende il meglio della nostra vita”… “non c’è più spazio per l’irresponsabilità, per la fantasia; viviamo in una condizione di mediocrità generalizzata”… “tutto è reale, il reale non è solo quello che vediamo al telegiornale: la poesia è reale, la letteratura è reale, l’immaginazione è reale”. Sono solo alcune delle fulminanti riflessioni-flash che Julio Bressane condivide con il pubblico del suo film al termine della proiezioni di Beduino, passato ieri in Signs of Life, la sezione del Festival di Locarno dedicata alle frontiere più inconsuete e sperimentali del cinema contemporaneo.
Sentire parlare Bressane è un’esperienza davvero straordinaria: un profluvio di riflessioni, spunti teorici, dichiarazioni fulminanti, fatte sempre con la massima umiltà che è almeno tanta quanto l’acume delle cose che vengono dette. Tra queste una in particolare – dal sapore quasi althusseriano – ci ha colpito: “il cinema non è una sintesi, non è la summa delle altre arti. Il cinema è un attraversamento, un taglio”. Il cinema è insomma un atto di separazione, non di congiunzione. E non è un caso infatti che appena dopo, Bressane ricordi che di fatto la materia del cinema sia completamente priva di sostanza: “è la proiezione di una trasparenza”.
Quest’idea dell’immagine non come rappresentazione della realtà, come atto di separazione e taglio; quest’idea insomma agonistica del cinema è quella che vediamo nei 75 minuti di Beduino, un vero e proprio attraversamento del tema dell’amore e del rapporto di coppia. Il film inizia nella maniera più semplice: un uomo e una donna (interpretati splendidamente da Alessandra Negrini e Farnando Eiras) che camminano per una strada. Si cercano, corrono verso l’uno verso l’altro, ma i loro sguardi non si incrociano mai, come se il loro rapporto prendesse la forma di una asimmetria più che di un incontro. Poco dopo siedono a un tavolo: lei parla del sogno che ha fatto; lui parla del problema di come due persone possano farsi capire. Tra i due non c’è dialogo.
Nella quasi interezza del film l’uomo e la donna – che sono gli unici due personaggi che vedremo – parlano sempre di cose diverse; raramente i loro sguardi si uniscono nella comprensione dell’intersoggettività. Il paradigma di questo rapporto (ma Lacan l’avrebbe chiamato un non-rapporto) lo vediamo quando in uno stilizzatissimo parco, lui cieco si siede sulla panchina e lei si denuda completamente davanti a lui per farsi vedere. Se è la donna a sognare, è l’uomo a identificarsi con la realtà; se è la donna a voler essere oggetto del desiderio, è lui a essere cieco. Insomma l’amore non è la costruzione di un equilibrio ma l’attraversamento passionale di una differenza.
Si potrebbe dire che vi siano due modi per pensare della relazione tra maschile e femminile: una è quella che dà al maschile e al femminile una connotazione sostanziale e quasi spirituale (e quindi tutto nella realtà diviene parte o di una forza maschile o di una forza femminile); l’altra è quella che invece predilige la differenza alla sostanza, e che soprattutto vede nell’impossibile sintesi del rapporto tra i sessi una estroflessione dell’impossibilità per ognuno dei essi di giungere a una piena identità. Ci pare evidente come Bressane decida di intraprendere questa seconda strada, per la quale è impossibile costruire uno sguardo onnicomprensivo che possa guardare e neutralizzare (nel senso letterale di “far diventare neutro”) la differenza tra i sessi. Non è un caso che il titolo del film indichi proprio uno dei due personaggi – quello maschile –, come se la nominazione stessa del rapporto fosse impossibile.
Si dice spesso che un cinema di questo tipo non abbia alcuna possibilità di dialogare con il grande pubblico; che sia in un certo senso condannato a rimanere nella marginalità nella quale si trova e nella quale sembra persino che sia contento di trovarsi: una sorta di comunità carbonara di aficionados che si compiace e si auto-rappresenta ogni volta che un film del genere viene proiettato. Ma è proprio Bressane a chiarire quale sia invece la posta in palio – di gran lunga più ambiziosa – del suo cinema: il fatto cioè di non pensare all’esistenza del proprio pubblico (o se è per questo di qualsivoglia pubblico). Detto più semplicemente: “non bisogna presupporre l’esistenza dello spettatore”. Quello che è importante è il film nella sua oggettualità.
C’è in effetti una bella differenza tra il pensare di creare qualcosa perché deve essere guardato da qualcuno e il pensare che quel qualcuno, invece, non esista affatto. Il cinema insomma non deve adeguarsi al modo di guardare esistente (non deve cioè fare sintesi del mondo così com’è), deve piuttosto creare il proprio sguardo: deve far sì che lo spettatore consegua al film e non gli pre-esista. Che poi non vuol dire nient’altro che fare i film per un mondo che non esiste ancora. O come diceva Deleuze riguardo a Straub, per un popolo che deve ancora venire.