Villa Medici, tra i più famosi palazzi di Roma, si trova proprio accanto a Trinità dei Monti, in cima al Pincio nel punto più alto dell’intera città. Nell’antichità fu sede degli Horti Luculliani (dove venne uccisa Messalina), poi nel XVI Secolo fu di proprietà del Cardinale Ferdinando de’ Medici fino all’epoca napoleonica durante la quale divenne sede dell’Accademia di Francia a Roma. Ora è un’istituzione culturale di grande prestigio che ormai da molti anni bandisce un premio per degli artisti francesi che per un anno ricevono una borsa di studio e hanno la possibilità di utilizzare la villa per il loro lavoro o semplicemente per studiare (quello che nel mondo dell’arte è conosciuta come residency).
È qui che Caroline Deruas – regista di alcuni cortometraggi passati a Locarno e Cannes, e co-sceneggiatrice degli ultimi tre film di Philippe Garrel – decide di ambientare L’Indomptée il suo primo lungometraggio. Tuttavia soggetto e oggetto del film si sovrappongono e si confondo perché L’Indomptée è sia il prodotto di una residency a Villa Medici (la Deruas fu artista a Villa Medici nel 2011 e la sceneggiatura di questo film è l’esito di quell’anno di lavoro) sia il racconto di finzione della stessa.
Camille – interpretata da Clotilde Hesme, ma esplicitamente alter-ego della regista – è una giovane scrittrice che ha scritto qualche buon racconto ma che da tre anni è in crisi d’ispirazione e non riesce più a produrre nulla. Suo marito è un famosissimo scrittore francese molto più vecchio di lei e più che essere una fonte di ispirazione è un ingombro insuperabile per il suo lavoro e la sua vita (in una scena le ricorda persino che le donne non sono fatte per essere creative). Camille insomma non sa chi è: non scrive più, persino il bando per essere accettata a Villa Medici l’ha copiato da uno scritto di qualcun altro. Sembra che insomma, non abbia più un desiderio.
“Che cosa vuole una donna?” si chiedeva Freud a inizio Novecento messo di fronte all’enigma della femminilità. Tuttavia quest’enigma non nasce solo dall’ansia maschile di non conoscere il desiderio femminile, ma è anche parte della domanda femminile stessa nei confronti di se stessa. Gli psicoanalisti ricordano spesso come per molte donne sia più difficile identificarsi alla propria immagine narcisistica, come se ci fosse più consapevolezza di come i sembianti sociali (la propria immagine pubblica, il proprio ruolo sociale etc.) non possano rispondere esaustivamente alla domanda: “chi sono io veramente?”
Il vero protagonista del film infatti non è Camille, ma letteralmente la sua immagine, che la Deruas costruisce come un vero e proprio personaggio. Si chiama Axèle (interpretata da Jenna Thiam): è giovane, bellissima e ha soprattutto una forza creativa che al contrario di quella di Camille sembra inarrestabile. Non a caso il suo ruolo a Villa Medici è quello di fare fotografie: ovvero di provare a dare una risposta in forma d’immagine alla domanda d’identità. Le sue foto hanno tutte come oggetto il corpo, anche se in quasi nessuna viene ritratto il proprio volto (tranne una dove al posto del suo volto vi è uno specchio nel quale è Camille stessa a vedersi riflessa).
Axèle ha uno statuto ibrido, che è a metà tra la proiezione fantasmatica e il corpo, tra l’immaginario e il reale, tra l’identità e l’alterità. La Deruas la concepisce esplicitamente con un registro che più che illusorio è più-che-reale: ci fa dubitare tutto il film della sua esistenza e tuttavia ce la fa vedere nella villa con una consistenza anche psicologica che è tanto concreta quanto quella di tutti gli altri personaggi. Come ha dichiarato la regista stessa al termine del film: i sogni non sono nient’altro che le tracce che lasciano nella vita cosciente: non sono cioè una fuga dalla realtà verso una dimensione altra, ma sono la verità della realtà stessa. Axèle non è propriamente un personaggio fantastico ma è l’immagine che proprio perché è deficitaria nella vita di Camille struttura la sua stessa esistenza nella villa sotto forma di mancanza.
Forse alla domanda sulla propria identità andrebbe risposto non alla maniera maschile – che ossessivamente ricerca una maschera sociale che possa definitivamente esaudirla – ma appunto secondo la modalità femminile, secondo cui quello spazio d’incertezza visivo debba essere lasciato vuoto, proprio come fa Axèle, che nel momento della mostra delle sue fotografie le vorrebbe strappare tutte. Tra la parola e l’immagine, tra Camille e Axèle il problema allora non è tanto quello di colmare la loro distanza e trovare una sintesi tra le due, ma di abitare creativamente il vuoto che le loro due posizioni inevitabilmente non possono che aprire. D’altra parte non è forse la più assurda delle illusioni quella di pensare di essere davvero Uno?