I pezzi del cuore: articoli, interviste, analisi e approfondimenti dall'archivio storico di Cineforum, scelti per te dalla redazione della rivista per la campagna Sostieni Cineforum
Abbiamo deciso di iniziare questo focus con un pezzo scelto dalla direttrice Emanuela Martini: un estratto dalla recensione di Fuori orario di Martin Scorsese scritta da Franco La Polla sul n. 255 del 1986. Solo uno dei tanti articoli che avremmo potuto scegliere per tornare a La Polla e alla sua lunga collaborazione con la rivista: "il più lucido, enciclopedico, entusiasta, accademico/antiaccademico, critico/scrittore della sua (e di altre) generazioni, con due doni incomparabili, soprattutto se concomitanti (com’erano nei suoi scritti): la profondità di analisi e la chiarezza assoluta di pensiero" (Emanuela Martini)
Scorsese non ci sta dicendo che questa potrebbe - fantasiosamente - essere la realtà, non sta giocando sulla logica del "come se"; al contrario, egli ci dice inequivocabilmente che le cose stanno proprio in quel modo, che la logica dietro ogni cosa che ci accade richiede l'orrore della scoperta che la fantasia è molto più reale della realtà. Si pensi a un pur intelligente film come Tutto in una notte di John Landis, alla stravolta e inattesa avventura del suo insonne protagonista. In un solo momento quella pellicola diventava domanda sull'esistere: nella bellissima sequenza dell'uccisione all'aeroporto, con quel primo piano sul protagonista che si pone interrogativi sulla propria vita e con l'arabo che come risposta si suicida fuori campo. Un grande momento in cui la commedia finisce di essere comica e rifiuta ogni etichetta. Fuori orario, invece, è una domanda continua: che cosa ci fa il tale in quel posto e poi nell'altro e nell'altro ancora; e perché tante persone passano sempre nello stesso posto? Come si collegano le vite degli uni e degli altri? A quali disegni - del Caso o di Dio - obbediscono? Perché tutto questo avviene a Paul, e perché in tale enorme misura? L'escalation è vorticosa, da ritmi perfettamente cadenzati si passa via via a fatti che si susseguono a distanza ravvicinatissima, e di carattere sempre più grave.
L'amore e la morte si intravedono dalle finestre, forse una di quelle stesse spiate più di dieci anni fa dal protagonista di Taxi Driver. L'alienazione urbana, violenta negli anni '70, diventa passiva negli '80. Oh certo, sin dai '60 lo shlemiel si era presentato sulla scena del romanzo americano (per essere ripreso di lì a poco anche dal cinema), già allora forze oscure congiuravano contro la sua vita e la sua sanità mentale, e in fondo i segni collegati di una realtà apparentemente disorganica sono eredi del Tristero di L 'incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon. Con la differenza, però, che qui l'assassinio Kennedy e il caso Watergate (peraltro posteriore al romanzo di Pynchon che è del 1966) sono stati digeriti, che la paranoia non trova più referenti storici e/o cronachistici: essa, vale a dire, è un meccanismo che procede per inerzia, un incubo che non può avere spiegazioni se non attraverso l'incubo stesso e le radici ossessive di cui si diceva più sopra. Ma stiamoci attenti: Paul non è preso dall'incubo. Al contrario, anche se egli sembra tentare continuamente di sfuggirgli, è l'incubo a rifiutarlo, esattamente come il barista allontana bruscamente per ben due volte con un secco "Vai fuori!" un disgraziato che evidentemente simboleggia l'intera avventura dello stesso Paul, colto in un vortice nel quale nemmeno le identità sono chiare (Bridges o Franklin?).
Tutto, dunque, persino i nomi, allontanano il protagonista. Egli non può essere invitato in casa da qualcuno (e lo è spesso) che dopo un po' la terra comincia a scottargli sotto i piedi. Tutti lo vogliono cacciare, gli vogliono male, tutti intendono eliminarlo, o quantomeno renderlo innocuo. Solo lui sa di essere già tale, le sue ombre- perché tali esse sono- lo ritengono invece pericoloso. Non c'è amicizia, non c'è gentilezza, non c'è fratellanza, o addirittura rapporto filiale (June, la madre puttana) che prima o poi -magari senza alcuna ragione, come nel caso del barista del Terminai - non crolli. Paul vuole sfuggire agli incubi nella misura in cui essi lo vogliono cacciare; e dunque il suo senso di colpa ("Mi incolperanno anche di questo!") si concreta a partire dall'impossibilità di trovare un contatto con gli altri: "Che cosa vuole da me? - Voglio parlare, voglio qualcuno che mi ascolti''.
Nessuno gli risponde a tono, e più di una volta egli si arrabbia; ma subito dopo si ammansisce come un agnello, perché è bene educato, perché teme di offendere gli altri, perché vuole essere aiutato, perché è impotente, perché non capisce quel che gli succede e perché nell'incertezza è sempre meglio essere ben disposti. Fuori orario, allora, non è tanto una puntata nel mondo dell'incubo, ma una vera e propria cacciata da uno strano paradiso con il segno algebrico opposto, come - dunque - non tanto una riedizione in chiave nuovayorkese di L 'inquilino del terzo piano di Polanski, bensi di Alice nel paese delle meraviglie (e allora, se proprio di Polanski si vuole parlare, il riferimento va fatto a Che?).
Nella "twilight zone", in cui da un momento all'altro Paul si ritrova, le intenzioni dell'uno sono quelle dell'altro; ma, come è noto, nella "twilight zone" vige la regola del paradosso, e lo scontro è inevitabile. Che cosa garantisce che fuori Soho Paul si troverà al sicuro? Da quando un supposto ladro e assassino trova riparo, a Manhattan, oltre una certa strada? Il tentativo del Biedemann di entrare nel mondo dell'avventura, dell'imprevisto, del notturno finisce come certi film di fantascienza o d'onore, col ritorno del protagonista nel proprio mondo come se nulla fosse successo, eppure con un qualche segno in mano (o addosso) che invece tutto è veramente accaduto. A meno che - cosa non poi tanto improbabile - quei cancelli che si aprono di prima mattina per accoglierlo nel sicuro e confortevole ambiente del suo lavoro non siano anch'essi un incubo.