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Per Martin Scorsese Cape Fear doveva essere il film con cui fare soldi e ripagare la Universal della spesa per l'Ultima tentazione di Cristo. Un'operazione suggeritagli da Steven Spielberg nelle vesti di coproduttore e da Robert De Niro. Un film "alimentare" insomma, che come a capita volte con i film alimentari ha finito per essere violentemente personale. Emanuela Martini mette qui a confronto il remake di Scorsese (1991) e il Cape Fear originale (1962) di John Lee Thompson; il Max Cady di De Niro e quello di Robert Mitchum che incarnava lo stesso sconvolgimento dell'ordine familiare e sociale presente in Psycho...
È costato 34 milioni di dollari (il budget più alto gestito da Scorsese dai tempi di New York, New York); è un remake (una formula che il regista non ha mai apprezzato); e per di più, deve far soldi, per ripagare la Universal del denaro investito nell'Ultima tentazione di Cristo. Infatti, Cape Fear è il primo risultato del contratto esclusivo di sei anni firmato da Scorsese con la Universal; è coprodotto dalla compagnia di Steven Spielberg, che aveva messo in moto il progetto alcuni anni fa e che, insieme a De Niro, ha convinto Scorsese a dirigerlo. In pratica, è un film "alimentare" come sono stati, a detta del regista, After Hours e Il colore dei soldi. E, come capita a volte con i film alimentari, compressi dall'autocontrollo ed enfatizzati dai valori produttivi (e come è certamente capitato con After Hours), Cape Fear ha finito per essere violentemente personale, dmamico costellato di ossessioni scorsesiane, addirittura migliore di altre opere più sentite dal regista, non come qualità cinematografica (Scorsese ormai non sbaglia un film da anni), ma come compattezza narrativa e ngore ritmico. Cape Fear non molla lo spettatore un momento, costringendolo alla tensione e all'incubo per più di due ore. Nè Goodtellas nè The Grifters (il film di Frears prodotto dalla Tribeca di Scorsese) hanno vinto un Oscar, e a suo tempo neppure Toro scatenato, che è probabilmente il capolavoro di Scorsese. "Fu quando persi con Toro scatenato che capii quale sarebbe stato il mio posto nel sistema, se mai fossi riuscito a sopravvivere: quello che dall'esterno guarda dentro. Poi, l'Accademia ha inviato un messaggio molto forte alla gente che ha fatto Goodfellas e The Grifters; indipendentemente dal loro talento, non avrebbe avuto nessuno premio. Io ero il produttore di The Grifters, e di certo ho capito il messaggio".
Neppure Cape Fear è stato premiato, anche se per una volta, imprevedibilmente, è stato un altro outsider hollywoodiano a fare razzia di premi, Jonathan Demme con Il silenzio degli innocenti, che è senza dubbio il più bel film del 1991, addirittura più cattivo, inquietante, malsano di Cape Fear. Ma la competizione tra Hannibal Lecter e Max Cady era di tutto rispetto: se il dottore cannibale di Anthony Hopkins è un mostro ambiguo, un padre sanguinario matenalizzato dall'inconscio collettivo, lo stupratore fanatico di De Niro viene giù diritto dalla cattiva coscienza della generazione del Vietnam. Nessuno dei due si concede l'alibi del sogno e dell'astrattezza (come è accaduto quasi costantemente agli incubi per teenager degli anni '80), ed entrambi contrappongono un valore assoluto, freddo, a specifiche valutazioni morali, l'intelligenza analitica contro la rozzezza burocratica il dottor Lecter, il meccanismo oggettivo del procedimento legale contro la specificità dei crimini Max Cady. Il primo è un borghese, intelligentissimo e colto, il secondo è un proletario pazzoide e autodidatta.
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Tutto nasce veramente con Max Cady. Infatti (Spielberg a parte), è stato De Niro a fissarsi sull'idea di interpretare il personaggio, fino a convincere Scorsese a dirigere il film. Non c'è da meravigliarsene, perché Max Cady rappresenta il confronto diretto con uno degli attori più “improducibili” del cinema classico, Robert Mitchum, cattivo sfuggente e fisico, segnato da una sensualità minacciosa persino quando interpreta il buono. È stato lui il primo Cady, nel film del 1962 diretto da John Lee Thompson, regista inglese emigrato a Hollywood che aveva appena raggiunto il successo internazionale (e di cassetta) con I cannoni di Navarone, e che di lì in avanti avrebbe diretto solo colossal brutti e privi di personalità. Al punto che si avrebbe la tentazione di legare la qualità morbosa e inquietante di Cape Fear n. 1 (che d'ora in poi chiameremo Il promontorio della paura, per distinguerlo da quello di Scorsese) al solo Mitchum e al ricordo di un suo cattivo di poco precedente, Harry Powell, il predicatore assassino di La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton, citato esplicitamente da Martin Scorsese.
Ma se risaliamo alla filmografia inglese di Lee-Thompson, scopriamo che in patria era stato un regista tutt'altro che disprezzabile, nonostante avesse esordito negli anni 50, quando l'industria britannica cominciava a chiudere bottega. Regista commerciale, senza pretese d'autore, si era destreggiato nei generi più disparati, dalla commedia (An Alligator Named Daisy, 1955), al film di guerra (Birra ghiacciata ad Alessandria, 1958), ai drammi popolari a forti tinte. Sono proprio questi ultimi i suoi film più interessanti, soprattutto Gli uomini condannano (1956) e L'adultero (1957), nei quali Lee-Thompson affronta il melodramma di impianto naturalistico con una popolarità robusta e un approccio visivo perlomeno inquietante. John Hill, nel suo Sex, Class and Realism, paragona L'adultero addirittura ai film di Sirk, per il sostanziale ribaltamento che le immagini e i movimenti di macchina attuano rispetto alla superficie del testo. Ma anche senza arrivare a Sirk, non c'è dubbio che sotto questi film di Lee-Thompson corrano sensazioni “scomode”, dall'idea della repressione sessuale e sentimentale insita nell'educazione inglese a un senso costante di imprigionamento e appiattimento. Lo stesso vale per Questione di vita o di morte (1959), un noir solo parzialmente riuscito, che ha i suoi momenti migliori nella descrizione del rapporto tra un assassino in fuga e un'adolescente, Hayley Milis al suo esordio. La minaccia della sessualità si fa sempre più palpabile, e conduce dritta tra le braccia di Max Cady. Max Cady entra in scena nella primissima sequenza del Promontorio della paura, quella sulla quale scorrono i titoli di testa, dominata dal tema inequivocabile di Bernard Herrmann: siamo in pura zona Hitchcock, non a caso un altro inglese che ha trasferito nella provincia americana le proprie perversioni. Arriva da fondo e attraversa le strade e la piazza di una cittadina ordinata, segnata dal bianco (e infatti siamo nel Sud, dove tutto è bianco, quando non è uno slum). Anche lui è vestito di bianco e porta il panama, ma il suo incedere indolente è quello di un grosso animale da preda, gli sguardi che lancia alle ragazze carine sono più offensivi della sua maleducazione aperta verso le donne poco attraenti (urta una segretaria facendole cadere delle carte di mano e non la degna neppure di una scusa), il tono con cui si rivolge all'inserviente nero del tribunale (in pieno Sud, l'unico nero del film, insieme al cameriere del bar) è un insulto. In pratica, Robert Mitchum al meglio, un po' molle, insinuante, un'offesa vivente al perbenismo del paese e all'armonia zuccherosa della famiglia Bowden. Sembra sonnolento, ma ha un'intelligenza tanto sveglia da tenersi sempre al di qua della legge (e da mettere costantemente in buca l’avvocato Gregory Peck); sembra flaccido, appesantito dagli anni di galera e dall'alcool (lui beve, a differenza del Max Cady di De Niro, che consuma solo Evian), ma quando esce allo scoperto nella palude nuota e combatte come un alligatore.
La sua minaccia è esplicitamente sessuale; sembra che per istinto non possa rivolgersi a una donna senza violentarla. Nella sequenza del bowling, chiede a una cameriera: «Quell'anello significa qualcosa?»; e quando la ragazza gli risponde sorridendo «Significa un sacco di cose», Cady piazza un biglietto da venti dollari sul tavolo e sogghigna: «E questo, significa qualcosa?». Poi, in un bar, aggancia una ragazza, con un semplice gioco di sguardi. La ragazza ci sta, sembra molto presa di lui e se lo porta in camera. Ma, distesa sul letto, in sottoveste, si accorge, ancora una volta dallo sguardo, di essersi appartata con una bestia feroce. Mitchum la intrappola e la macchina da presa stacca sulle loro ombre riprese dall'esterno della finestra (e sulle grida di lei), ma la scena ha una violenza almeno pari a quella del passo analogo di Cape Fear, dove sentiamo il braccio spezzarsi, vediamo De Niro sbranare la guancia di Lori e picchiarla selvaggiamente sulla testa. Di tutte le scene del Promontorio della paura, è quella che rimanda più esplicitamente all'atmosfera malata della Morte corre sul fiume, insieme alle due sequenze che mettono di fronte, soli, Max Cady e la piccola Nancy Bowden: l'inseguimento (finto) nei sotterranei della scuola e l'aggressione (vera, fisica) nella casa-barca. Ma il riferimento potrebbe anche essere inconscio, implicito nel testo; in fondo, si tratta ancora della storia di Cappuccetto Rosso e del Lupo, messi a confronto in uno sperduto paesaggio americano, di Mitchum che dà la caccia a una bambina. È certamente voluto, invece, il rimando a Psyco che segue la violenza nella stanza della ragazza: la stessa scala interna ripresa dall'alto, la musica (quasi la stessa) di Herrmann, lo stesso investigatore, Martin Balsam, che sale la scala, l'angolo di ripresa, pressoché identico. Troppe coincidenze per essere casuali.
Cosa c'entra Psyco? Poco sul piano dell'intreccio e della qualità della violenza esibita; ma nei due film circola un'aria di famiglia, la stessa sensazione di destabilizzazione di un ordine sociale e familiare, la stessa atmosfera d'epoca, “paludosa” e sospesa. Non è solo una faccenda di fotografia in bianco e nero, di acquitrini, di psicopatici. Tra l'altro, il Max Cady di Mitchum non è uno psicopatico; e probabilmente Scorsese e De Niro, complici la colonna sonora e Martin Balsam, si sono ricordati anche di Psyco quando hanno costruito il loro Max Cady, quando lo hanno circondato di feticci e travestito da donna (in Sacred and Profane, «Sight and Sound» n. 10, febbraio 1992, J. Hoberman ipotizza addirittura che Scorsese abbia ribattezzato Leigh la moglie di Bowden, che si chiama Carol nel romanzo di John MacDonald e Peggy nel primo film, in omaggio a Janet Leigh; a proposito di nomi, l’attrice che nel Promontorio di Lee-Thompson impersona la figlia di Bowden era Lori Martin; nel film di Scorsese si chiama Lori la donna che ha una relazione con Bowden e viene violentata da Max Cady, un'altra coincidenza che non ha l'aria di essere casuale). Il filo che lega Il promontorio della paura di Lee-Thompson a Psyco (e a un altro film di Hitchcock del 1943, L'ombra del dubbio), a La morte corre sul fiume, al Buio oltre la siepe di Robert Mulligan (altro film “sudista” del 1962, dove Gregory Peck interpreta un avvocato meno legnoso di Sam Bowden, e, soprattutto, dove circolano molti bambini), è prima di tutto quello dell'intrusione (si tratti di assassini travestiti da uomini del Signore, di sadici capaci di tutelarsi dietro la legalità, o di neri che rivendicano i loro diritti), e dell'indebolimento e dell'inefficacia delle difese tradizionali, la famiglia in testa. I bambini e gli adolescenti di questi film affrontano l'uomo nero da soli, se la cavano da soli (meno di tutti, proprio la Nancy del Promontorio della paura), “viaggiano” nel territorio oscuro della paura da soli. Uno di loro, quello di Psyco, è addirittura l'assassino, messo sulla strada della psicosi dalla mamma. I grandi usano armi spuntate o si rinchiudono tra le pareti di carta del buon senso e della rettitudine americani. Ma i mostri buttano giù quelle pareti con un soffio, e l'unica maniera per sconfiggerli è regredire sul loro territorio, abdicare alle leggi e alle convenzioni sociali. L'America è tutta un'incrinatura.
In questo senso, il film di Lee-Thompson è assolutamente esplicito, e non solo a causa del testo, dove Sam Bowden viene apertamente invitato a combattere Cady, che è un animale, come un animale. Sarà perché Mitchum è un attore molto più carismatico di Gregory Peck, sarà perché la famiglia di quest'ultimo è insopportabile nella sua adamantina solidarietà, sarà perché Lee-Thompson, da buon inglese, sa far trapelare il senso del peccato dall'innocenza e quello della repressione dall'ordine, sta di fatto che per una buona metà del film rischiamo di fare il tifo per Cady. Non che Cady sia un antieroe del tipo cui ci ha abituati il cinema americano successivo. È davvero un sadico pericoloso e violento, senza alcuna giustificazione e senza alcun principio morale. Quella per cui facciamo il tifo è la minaccia che la sua sola presenza insolente rappresenta per la comunità presuntuosamente esemplare di New Essex, con gli uomini della legge schierati tutti insieme dalla parte giusta (tranne la tipica volpe azzeccagarbugli e sanguigna) anche a costo di usare, di nascosto, mezzi illeciti (infatti Gregory Peck ascolta il buon senso della moglie e non va a sparare a Cady, ma assume i picchiatori), e con la famiglia arroccata dietro stereotipi insostenibili. Sam Bowden può anche non accorgersi che la sua bambina porta ormai la seconda misura di reggiseno ed è un'ovvia preda sessuale per Cady, ma per noi i bamboleggiamenti infantili di Nancy sono un lampante anacronismo. Lo stesso vale per la moglie, mai un tentennamento, un dubbio, un'occhiata esasperata. Altro che «buon ceppo di pionieri» (come dice della figlia per tranquillizzare il marito): questo è un iceberg travestito da zucchero filato.
Il che non significa che il film di Lee-Thompson sia debole sul piano dell’approfondimento psicologico. È semplicemente un film di genere, capace di minare le sicurezze del genere attraverso le inquietudini della macchina da presa e dell’atmosfera. Max Cady è il mostro venuto da fuori (e il film infatti ha spesso cadenze di horror più che di thriller) a mettere in crisi la normalità. Lee-Thompson riesce non solo a restituirci la sensazione angosciante della fragilità della normalità assediata, ma anche a istillarci più di un dubbio sulle sue inossidabili convenzioni. Cady va a scoperchiare un pentolone ribollente; e anche se Sam Bowden prontamente lo ricopre, per farlo è costretto a mettersi esattamente sullo stesso piano animalesco del suo avversario, a usare la moglie e la figlia come esche e a rotolarsi con lui nel fango della palude. Non è un caso che, nonostante il lieto fine “etico” (l'avvocato non uccide Cady, perché «Sarebbe troppo facile e rapido. Sei forte, e vivrai una lunga vita in una gabbia, a contare i mesi, i giorni, le ore, fino a quando marcirai»), Il promontorio della paura sia stato attaccato con violenza dai critici dell'epoca. «Variety», «Esquire», il «New York Times», per non parlare dei critici inglesi, tutti misero all'erta gli spettatori e giudicarono intollerabile la minaccia sessuale di Mitchum a Nancy Bowden. Si distaccava dagli altri un certo Barry Gifford, giovane critico del Sud degli Stati Uniti che definiva Mitchum «un angelo della morte con dolore, mandato sulla terra per seminare il dubbio tra gli uomini». Anni dopo, trasformatosi in romanziere, Gifford paga il debito con il film di Lee-Thompson e ambienta in un paese chiamato Cape Fear il suo romanzo Cuore selvaggio (proprio quello di Lynch).