«E cinema fu»: la dichiarazione in voice-over di Ossama Mohammed apre Eau Argentée, (auto)ritratto della Siria presentato fuori concorso al 32° Torino Film Festival nella sezione TFFDoc.
Un evento di assoluta e inaspettata grandezza che raccoglie la questione siriana, la trascende dalla questione politica e la eleva a questione cinematografica. L’evidenza, per nulla scontata, è che ancora oggi, nel 2014, è possibile riflettere sul senso dell’immagine, sull’etica della rappresentazione, sull’esperienza della visione, sulla produzione del visibile, sulle sorti del cinema.
«Mi chiamo Ossama Mohammed. Ho lasciato la Siria il 9 maggio 2011, il giorno della vittoria sul fascismo. Mi sto dirigendo verso Cannes e poi verso Parigi. Senza più nessun film. Sono io il film».
«Se la tua macchina da presa fosse qui, cosa filmeresti?» gli scrive da Homs, via chat su Facebook, la giovane attivista curda Wiam Simav Bedirxan. «Tutto» digita Mohammed.
E così, due individui interagiscono senza volto, dialogano, si scambiano confidenze, paure, domande senza risposte, riflessioni sugli anni e sui giorni in cui il popolo siriano lotta per la caduta del regime di Bashar al-Assad. E condividono filmati e fotografie: Ossama, da Parigi, alla ricerca di immagini, trova in rete centinaia di riprese, anonime, di autori (sia resistenti sia militari) che con cellulari o videocamere diventano filmmaker improvvisati e producono materiale sgranato, slabbrato, senza risoluzione né definizione. Allo stesso tempo Simav, con la sua piccola telecamera, filma la vita nella città assediata di Homs. Insieme, nella condivisione delle immagini, creano una scrittura visiva del reale, in cui il montaggio diviene dialogo e il racconto diviene conversazione. E insieme creano una sconvolgente cronaca di una distruzione in atto del loro Paese. Eau argentée è un documentario che raccoglie infatti la questione siriana come mai è stato fatto finora. Un film durissimo, una riflessione sulla brutalità dell’uomo, sul dolore dei luoghi, sulla catastrofe, sull’esodo, sullo smarrimento.
«Tutti i giorni» ha dichiarato Mohammed «in Siria qualcuno carica un filmato su YouTube e poi muore; altri uccidono e poi filmano. A Parigi, guidato dal mio inesauribile amore per la Siria, ho scoperto che potevo solo riprendere il cielo e montare il materiale d’archivio postato in rete. Nella tensione tra la mia alienazione in Francia e la rivoluzione è avvenuto un incontro. Una giovane donna curda di Homs ha iniziato a chattare con me su Facebook. Eau argentée è la storia di quell’incontro». E intanto «L'upload è iniziato. Sono al 5% ora... Al 20%... 70%» avverte Simav.
Se la percezione della rappresentazione è relegata al dominio dell’immagine, è invece al suono che i due registi affidano la percezione del reale. Nel tentativo infatti, sospira Mohammad, di «vedere la voce». La voice-over dei due registi diviene l’unico filo conduttore che ritma la narrazione e riflette le immagini. E se l'attacco di Padam Padam si intreccia a una ballata curda, il persistente e continuo suono intradiegetico della tastiera o della chat o dell’sms ricorda allo spettatore la presenza e la natura del medium utilizzato.
Cortei, manifestazioni di piazza (o persino subacquee), neonati impolverati con il cordone ombelicale, minareti distrutti, condomini esplosi, ragazzi nudi costretti a leccare piedi e stivali dei soldati, schiaffi, pugni, corpi violentati, colpi mortali, cadaveri appesi a testa in giù o legati e trascinati lungo le strade, profughi in cammino che si ostinano a portare in braccio i loro figli uccisi, donne calpestate, spinte a terra, fucilate, teste decapitate e impolverate che emergono dai detriti, un bambino (scelto come figura-manifesto del documentario) che porta le rose più belle alla tomba del padre martire, giungle fatte di vetri, corridoi, asini, neonati nudi abbandonati sul tetto di un bus, gatti senza zampe che miagolano verso la videocamera.
La voce di Mohammad suggerisce che ciò che scorre davanti agli occhi è di volta in volta cinema del reale, cinema del meraviglioso, cinema degli assassini, cinema delle vittime, cinema della poesia, fantasia. «Dodeskaden…» sussurra mentre la sua videocamera filma la fermata Bastille dai vetri del vagone metropolitano. «Che film mi consigli stasera?» gli chiede Simav. E su YouTube parte la sequenza di City Lights con Chaplin sul ring. «Vedemmo insieme Hiroshima mon amour» ricorda la voce del regista ripensando a un ragazzo poi ucciso che voleva aprire con lui un cineclub. Evidentemente, la strada lungo cui corre la memoria del cinema è ormai la stessa strada lungo cui si riversa la memoria dei corpi sommersi, sepolti, colpiti a morte.
Da Godard a Füller, da Rossellini a Haneke a Brakhage, la natura e l'etica dell'immagine vengono ancora una volta (ri)discusse, questa volta nella modalità più eversiva e al tempo stesso invasiva. Il cinema è immagine diffusa, è immagine pornografica di una realtà pornografica. E la visione della realtà non è insostenibile. È la realtà è essere insostenibile. Ma questo, purtroppo, lo sappiamo già.
La dedica finale recita «À Omar», Omar Amiralay, cineasta imprescindibile nella storia del cinema siriano, scomparso nel 2011.