Non è la lingua, quella parlata, a rendere il cinema un’arte in grado di comunicare ed emozionare. E non può dirsi un limite che un film come Avant les rues sia incomprensibile – sia chiaro, dal punto di vista dell’ascolto del linguaggio – alla maggior parte del suo pubblico. Primo lungometraggio in atikamekw – una variante della lingua cree, a sua volta appartenente alla famiglia delle lingue algiche dei nativi americani del Nord America – il film di Chloé Leriche è quasi un documento antropologico nel farsi portavoce (letteralmente) di una realtà unica e poco nota: quella delle comunità Atikamekw del Quebec (il set è la cittadina di Manawan).
La lingua, però, non basta a dare al film la forza che forse potrebbe avere. Andando oltre la straordinaria novità linguistica, e la capacità di raccontare un mondo regolato da meccanismi misteriosi, Avant les rues sembra infatti un film indeciso sulla strada da intraprendere. Da un lato ha momenti di espressività elevatissima: come la fuga attraverso la foresta, tra un vorticare sgranato di foglie e attimi di buio totale in cui non si vede niente e si percepisce tutto; o come la lenta e meticolosa preparazione del cappio rosso, che dovrebbe condurre alla morte e alla liberazione dal senso di colpa – non a caso proprio quando manca la parola, quando la lingua viene abbandonata del tutto. Dall’altro, purtroppo, è attraversato da troppi cliché narrativi: il ladruncolo che si sente grande mentre si fotografa con le armi in pugno; l’omicidio per errore; il padre che cerca di insabbiare l’evento per proteggere la famiglia; la necessità, per il ragazzo, di trovare una nuova strada nella vita.
In un’intervista Chloé Leriche ha dichiarato di aver voluto parlare di redenzione, di aver fatto «un film sulla guarigione». Avant les rues racconta infatti la storia di un ragazzo complicato e del suo percorso di miglioramento; di riscatto e acquisizione di consapevolezza. E lo fa mettendo in scena la solitudine del personaggio, la cura attraverso il lavoro manuale, l’ascolto degli altri, della natura e la riscoperta delle proprie radici ancestrali.
Una storia intensa, dunque, anche sentita, visti i trascorsi della regista con le persone della comunità Atikamekw, ma poco originale, e afflitta da una strana reticenza nell’indagare le psicologie dei personaggi. «Ho deciso di essere molto cinematografica (letteralmente fictional) includendo l’omicidio», ha ancora affermato la Leriche: ma la morte, pur rendendo il film doloroso e vero, non basta a renderlo necessario. La dilatazione dei tempi grava sul testo, e la sospensione finisce per sfumare i tormenti del protagonista, l’assenza di un vero rimorso o di una vera convinzione nel compiere il suo cammino.
In qualche modo, è come se Avant les rues fosse un corto dilatato, un lungometraggio senza respiro. La storia c’è, ma è forse appiccicata su un contesto sociale e antropologico che avrebbe meritato più attenzione. Al di là della scelta linguistica, sono infatti intensi e potenti i momenti in cui si racconta la comunità Atikamekw, tra i canti di Kwena (attrice non professionista, come del resto tutto il cast) i balli, i volti dipinti e i riti di purificazione.