Nella Cina di oggi capita che anche all’interno della stessa famiglia ci siano delle disparità economiche talmente enormi che due cugini possano appartenere a due classi sociali completamente opposte. Cosa succederebbe se uno dei due, quello ricco – che può permettersi di comprare qualsiasi cosa – chiedesse al cugino povero di vendergli addirittura uno dei suoi due reni, al fine di donarlo alla sorella morente?
The Donor parte da un pretesto molto semplice (quasi banale) ed è capace di tramutarlo nello spunto per raccontare dall’interno la società cinese contemporanea. Ciò che sorprende di più nel racconto di Zang – qui al suo primo lungometraggio – è come una vicenda tanto elementare come quella descritta nel film riesca a trasformarsi lentamente e inesorabilmente in un gioco al massacro molto pericoloso. In un affare che travolge le coscienze e le convinzioni morali dei protagonisti e rende questi ultimi soggetti spietati capaci di abbandonarsi e cedere agli istinti più bassi, è l’intero tessuto sociale a essere messo in discussione. Le storture di un sistema classista e retto interamente dai rapporti di potere e (quindi) dal denaro e che nella Cina di oggi appaiono macroscopiche a ben vedere, appartengono però anche alle società di ogni parte del mondo. Ed è per questo che The Donor è un racconto universale che potrebbe essere raccontato in ogni luogo e tempo.
Zang, inoltre, pone al centro del film il tema del corpo. Una scelta che dà una forza ulteriore al racconto e permette di ampliare l’analisi sulle questioni del rapporto fra individuo e collettività. Vendere il proprio corpo (o una parte di esso) è la forma più estrema di spersonalizzazione. Una società dominata da sistemi prettamente utilitaristici e modulata su rapporti dominati esclusivamente da logiche economiche, produce una mostruosità come quella che il film racconta quasi senza rendersene conto. Il corpo sociale, violato da tali forme culturali, viola a sua volta il corpo individuale, mostrando di poter irrompere in maniera brutale in quello che ognuno di noi ha di più intimo e privato.
Il grande rigore estetico che il regista applica alla forma con cui racconta la storia è un’evidente eco di tutto questo. L’attenzione per gli spazi, per le geometrie della città e per i luoghi (la casa nel quartiere popolare, la villa, l’ospedale) dà forma a un immaginario che costruisce senso ancora prima della narrazione. Il lavoro sul sonoro poi, davvero straordinario, aggiunge al film una vena di inquietudine che tramuta la storia in un vero e proprio dramma oscuro, sotterraneo e nero come la pece. Un lavoro, quello del sound design, che si fonde perfettamente con l’incedere lento e calibrato della mdp, capace di muoversi sinuosa e di prodursi in carrelli e panoramiche vertiginose, lasciando letteralmente che lo sguardo arrivi sempre un attimo prima della parola. Ed è così che è fatto, quasi sempre, il grande cinema.