Questo articolo è apparso sul numero 555 della rivista «Cineforum» (giugno 2016), dopo la presentazione del film al Festival di Cannes.
La gestione della normalità: la questione infondo resta sempre quella, nel cinema di Eran Kolirin. La banda, The Exchange e ora Me’ever laharim vehagvaot (Beyond the Mountains and Hills): nei suoi film si tratta di immaginare uno sfondo surreale, incisivamente ironico, per inquadrare la norma di un tempo esistenziale (israeliano) che sia privo di paura, diffidenza, rabbia, morte. Lo straniamento, che solidifica il gesto nei suoi personaggi, è come l’argilla di un golem fatto a misura d’uomo, impotente nel suo destino.
David è un residuato bellico in abito borghese, ventisette anni di esercito e ora non gli resta che una famiglia dove gli risulta difficile abitare; la moglie insegnante di lettere si fa sedurre da uno studente che se la vuole portare a letto come fosse in un video porno; il figlio lo scopre e cerca di porre rimedio alla gogna materna in streaming; la figlia idealista partecipa a raduni pacifisti e si fa sedurre da un arabo che potrebbe essere un “terrorista”. David stesso cerca un’ancora in un gruppo di motivatori per la vendita di prodotti dietetici e finisce a sfogare la rabbia sparando di notte verso le colline: al nulla o forse a un nemico non troppo immaginario…
Ogni personaggio agisce in preda a un’innocenza che sta tutta nella marca ironica, persino grottesca, che Kolirin gli mette addosso, perseguitandolo nella sua purezza impossibile, nella materialità colpevole di cui è fatta ogni sua azione, anche quella più aperta al mondo che si possa immaginare. La disperazione del film sta tutta nella sua disincantata incapacità di scrivere il dramma invece della commedia, agendo con un’attitudine consanguinea a quella di Elia Suleiman, ma intrisa di un rigore della condanna che ricade sul senso di colpa, sul muro di un pianto che non ha più luogo a procedere.
Lo stesso oscillare del film tra le geometrie delle strade e degli edifici, le impassibili intimità degli interni domestici e condominiali (esattamente come in The Exchange), e quell’indistinto richiamo offerto dall’altro(ve) della collina dove si radunano in libertà gli arabi, è la traccia che Kolirin incide sulla materia del suo filmare, così spiazzante e istintivo nel suo rigore. Basti pensare all’incipit del film, la festa di congedo di David, scritta con geometrie visive che performano la marzialità e il controcampo dei sentimenti in una magnifica scena da improbabile musical, per definire il livello altissimo di questo terzo film di Eran Kolirin.