C’è un retrogusto à la Quentin Dupieux nell’esordio del giovane canadese Philippe Grégoire con Le bruit des moteurs, presentato in concorso al 39° Torino Film Festival dopo aver fatto parlare di sé a settembre durante la rassegna di San Sebastian. Vicenda stravagante, narrata con toni grotteschi e impassibili che ne aumentano la carica ironica. Di quell’ironia glaciale, incongrua, che provoca sorrisi mentre dissimula il suo intento con un distacco surreale capace di diventare fin da subito una precisa cifra stilistica.
Il film è un omaggio rarefatto al proprio luogo di origine (Napierville, 45 chilometri da Montreal, ma senza che il nome sia citato per paura di strascichi legali) ma anche un racconto sulla ricerca di un’identità possibile quando le istituzioni diventano così tanto irrazionalmente cieche e bigotte da limitare la libertà dell’individuo. Alexandre, un istruttore al collegio per doganieri interpretato da Robert Naylor (già protagonista di quel gioiellino che è Répertoire des villes disparues di Denis Côté), è accusato di condotta morale inappropriata dopo che una delle studentesse della scuola con cui ha avuto un congresso carnale s’è sentita male. Sospeso dal lavoro e ritiratosi nel paesello in cui la sua famiglia gestisce una pista per le gare automobilistiche, è oggetto di ulteriori indagini da parte di due caricaturali poliziotti locali perché ritenuto colpevole di aver vergato alcuni disegni che lo ritraggono in pose oscene.
La storia è in parte autobiografica e trae ispirazione dal senso di soffocamento dello stesso regista, agente insoddisfatto della dogana per qualche anno, mentre, segretamente, studiava cinema coltivando il sogno di una carriera differente rispetto a quella della guardia di frontiera. L’intenzione artistica è di narrare una crisi esistenziale attraverso la lente deformante dell’umorismo e, per mezzo di questa, allargare gli orizzonti e proporre quesiti universali su cosa significhi il senso di appartenenza quando anche ciò che dovrebbe garantirti protezione mostra la sua avversità.
Grégoire sceglie un registro grottesco per trattare un nugolo di argomenti piuttosto impegnativi, tutti ruotanti intorno al soffocamento dell’individuo di fronte all’arrogante miopia delle istituzioni, che si distinguono per ottusità (la direttrice del collegio che scambia l’esuberanza sessuale per ossessione maniacale), moralismo (i disegni sconci sono considerati un crimine di estrema gravità, quasi come un omicidio), brutalità (i soprusi dei due poliziotti sulla base di semplici indizi) e ipocrisia (ancora la direttrice, la quale, mentre redarguisce il protagonista, gli propone un rapporto a tre insieme al marito). All’interno di questo insieme claustrofobico, maggiormente inquietante perché si concretizza all’interno di quello che come paese di origine si pretenderebbe un porto sicuro, una consolazione non è prevista nemmeno negli affetti, ci dice Grégoire, in un rigurgito ulteriore di pessimismo che contrasta con il tono impassibile assunto dalla narrazione: la madre è dedita al culto della sua assenza, avendo trasformato in mausoleo la sua cameretta, ma si mostra tendenzialmente incapace di fornirgli conforto quando gli è di fronte; mentre l’ipotesi di storia d’amore con una pilota islandese, Aðalbjörg, è sempre oscillante tra realtà e immaginazione proprio a causa del tono sospeso adottato dal film.
La concezione della regia, inoltre, presenta tratti geometrici destabilizzanti, perché la scansione regolare dei piani e delle porzioni di spazio simmetriche (e talvolta concentriche, quando si avverte il rumore dei motori del titolo) cozza vigorosamente con un contesto eccentrico, costantemente fuori asse, in cui il tentativo di armonia dello stile è solo un’illusione che accresce il senso di smarrimento di uno spettatore alla ricerca di ancoraggi impossibili da ricavare. In questa atmosfera che sarebbe già onirica solo per l’ambientazione lunare adottata, Grégoire ricorre spesso a tutto un corredo di simboli (la pista per le gare, le mani nere immerse nella profondità di una delle terre più fertili del Canada) e metafore (i giri su se stesse delle auto che circoscrivono l’orizzonte limitato del protagonista) in grado di rendere ancora più straniante e inafferrabile il racconto. Un esordio coraggioso e talmente connotato che contiene in sé la chiara minaccia di poter diventare maniera già al secondo film.