Le tre ultime Stanze di Rol sono anch’esse film totalmente differenti l’uno dall’altro. Good Madam della sudafricana Jenna Cato Bass rappresenta un tentativo piuttosto ambizioso di coniugare horror e critica sociale. L’Apartheid è (dovrebbe essere) ormai cosa del passato, ma in realtà la gente di colore ha così a lungo introiettato la sudditanza nei confronti dei bianchi dominanti che ne porta ancora i segni nella psiche. La nera Tsidi, dopo la morte della nonna, abbandona la casa dove vive con la numerosa e litigiosa famiglia e porta con sé la figlioletta presso la madre, che da tempo immemorabile lavora come domestica presso una grande dimora appartenente a una vecchia signora bianca. Qui, come nella più classica delle haunted houses, comincia a subire l’influenza dell’appartamento, ad avere strane visioni che la rendono quasi paranoica. Tsidi è violentemente ostile ai bianchi, e non sopporta tanto la sudditanza della madre nei confronti della “padrona” bianca. Che peraltro, anziana e malata, non si muove praticamente mai dal letto, e chiama la sua serva agitando un campanello. La situazione degenera quando il fratello di Tsidi tenta di interrompere la catena di servitù sopprimendo la padrona bianca. Colpo di scena: la madre preferisce uccidere il figlio piuttosto di mettere in crisi la sua permanenza nella casa del privilegio. A Tsidi non resta che affiancare la madre nel suo lavoro di cameriera, rassicurando i figli della donna bianca che stanno in Australia. Un amaro rendiconto di quanto ancora la razza nera sia subalterna nell’anima se non nello statuto sociale formale alla razza ex padrona.
Coming Home in the Dark del neozelandese James Ashcroft è un thriller abbastanza mediocre, a metà strada tra Haneke e Un tranquillo weekend di paura. Durante una escursione in una località montagnosa sperduta, la famiglia dell’insegnante Hoaganraad viene sequestrata da due brutti ceffi. Sembrerebbe un crimine dettato dall’avidità, ma non è così. I due figli vengono subito uccisi, i due coniugi vengono portati via in auto. Apprendiamo che il pater familias ha bruttissimi precedenti in una scuola per bimbi orfani, aveva quanto meno chiuso gli occhi davanti ad abusi e violenze varie nei confronti dei minori. Si tratta dunque, piuttosto, di un revenge movie condito da una serie di crimini gratuiti. Ma tutto il film suona un po’ gratuito, gli accadimenti non sono molto giustificati, la trama è piuttosto sbilenca, si cerca a tutti i costi l’effettaccio a scapito della credibilità.
L’angelo dei muri dell’italiano Lorenzo Bianchini è infine un film nel filone fantastico. Il vecchio abitante di un fatiscente appartamento triestino viene fatto oggetto di sfratto esecutivo. Invece di andarsene, si costruisce una minuscola stanzina segreta nascosta nell’intercapedine dei muri, in modo da poter rimanere in incognito. Non solo, ma pratica dei fori nella parete in modo da poter spiare ciò che accade nell’appartamento. Che viene affittato a una madre con la figlioletta cieca. Nasce così un rapporto speciale tra il vecchio e la bambina, che lo considera “l’angelo dei muri”, una sorta di divinità benefica che sovrintende alla sua felicità, e che per allietare la piccola le fa udire dei dischi che narrano delle fiabe. E una fiaba sembra in fondo anche tutto il film. Però fino soltanto agli ultimi cinque minuti, in cui la situazione si ribalta completamente, e scopriamo quella che è l’amara verità e il segreto terribile del vecchio. Anche in questo caso l’ambizione è tanta, ma il colpo di scena è abbastanza prevedibile, e si fa un po’ fatica ad accettare i continui ghirigori della regia, innamorata di piani sequenza e carrelli il più delle volte inutili e gratuiti. Bianchini non è male ma ha troppa tendenza al manierismo.