focus top image

In pochissimi altri casi si giudicherebbe favorevolmente un film diseguale, per molti versi carente, senza uno stile riconoscibile, forse anche troppo lungo, realizzato con mezzi di fortuna. Ma From Ground Zero, presentato nella nuova sezione Zibaldone del TFF, è importante perché offre una prospettiva privilegiata su un orrore quotidiano che in occidente osserviamo mediato dagli organi di informazione. Una visione ancora più importante se si pensa che a all’ultimo Cannes il film, inizialmente previsto, fu poi cancellato dal programma per evitare polemiche ed eventuali ritorsioni.

From Ground Zero è un lavoro collettivo, nato dal coordinamento dell’esperto regista palestinese Rashid Masharawi e composto da 22 episodi realizzati da altrettante voci, filmmakers che raccontano con una necessità esistenziale, più che artistica, cosa significhi vivere a Gaza dopo il 7 ottobre dello scorso anno. Episodi brevi, intorno ai 5 minuti ognuno, di diversa sensibilità e profondità, quasi tutti immediati nello stile e nella rappresentazione, talvolta ai limiti dell’amatorialità. Ma mai come in questo caso qualunque discorso critico appare vuoto e totalmente inutile, perché ciò che conta è la testimonianza, la forza dell'idea, il senso vertiginoso del dolore di un gruppo coeso di cineasti che, vista la tragica costanza dei bombardamenti e la quotidianità survivalista alla quale sono sottoposti, ci possiamo solo augurare siano ancora tutti vivi.

Questo paradosso tra la voglia di comunicare un dramma e, poiché la pace al momento pare l’ipotesi più lontana, il tentativo di farne ancora parte per poterlo raccontare, si sostanzia in alcune storie indicative che mostrano la resistenza, la reazione, la difficile elaborazione del lutto in un incubo a cielo aperto; inevitabile visto lo scenario di devastazione, macerie e palazzi distrutti dovuto alle rappresaglie israeliane, per un’ironia amara che pare essere diventata la cifra narrativa di un buon numero degli episodi dello stesso film. E, oltre le macerie, la speranza data dai bambini, onnipresenti, vittime predestinate della guerra ma anche simbolo di una possibile rinascita a cui solo pochi degli episodi paiono aver davvero rinunciato. Anche la presenza della spiaggia di Gaza, l’unico limite imposto dalla natura e non dalla legge spietata degli uomini, pur apparendo come un confine apparentemente invalicabile, fornisce invece uno spaccato illusorio di attaccamento eroico alla bellezza, concetto fondamentale dell’intera operazione.

Alcuni degli episodi esprimono un significato fulminante, soprattutto per la loro brevità. La resilienza di Everything is Fine (regia di Nidal Damo), in cui un comico, dopo aver scoperto che il teatro nel quale avrebbe dovuto esibirsi è andato distrutto, compie ugualmente la sua performance in mezzo alla strada. Oppure il pragmatismo di Recycling (diretto da Rabab Khamees), nel quale è mostrata l’abilità di una donna nell’utilizzare la sua unica tanica di acqua disponibile per mille usi domestici. Oppure anche il rispetto di se stessi in The Teacher (di Tamer Najm), che racconta dei tentativi falliti di un insegnante di ottenere la razione quotidiana di cibo, acqua e carica del telefono e del suo cortese rifiuto di un aiuto da parte di un suo ex allievo. O la commozione di School Day (di Ahmed Al-Danf), in cui il giorno di scuola del titolo diventa per un bambino la visita alla tomba del proprio insegnante, perito nei combattimenti. Storie che prendono le mosse dalla realtà per rappresentarla nella sua crudezza o, al contrario, per sublimarne la portata drammatica in poesia, anche se la tragedia reclama sempre la sua brutale incidenza, come nel caso di Taxi Waneesa, dove la regista E’temad Weshah interrompe il finale per annunciare lo scoramento per la morte del fratello come causa del finale tronco del suo lavoro. Fortunatamente, si assiste anche a un momento in controtendenza, quello di No di Hana Eleiwa, la quale si costringe a negare le brutture della guerra mostrando i canti di un gruppo di musicisti.

Ma è solo un breve istante.

È proprio nella forza delle sue immagini, nello sforzo compiuto e nel coraggio mostrato per esprimerle, che risiede tutto il significato di questo lavoro imperfetto, anomalo e discontinuo, ma dall’enorme valore politico e umano.