One woman show. È di questo che si tratta. Amy Adams occupa interamente Nightbitch di Marielle Heller (Copia originale, Un amico straordinario) e di fatto lo cannibalizza con una performance totale, originata dal corpo, appesantito da qualche chilo, e avvolta in una recitazione in e over che relega a semplice corredo tutto quello con cui nel film interagisce. Amy Adams incarna un concetto di Donna con l’iniziale maiuscola, il cui ruolo tradizionale, creatrice della vita e poi madre che si pretende costantemente soddisfatta, è pur sempre antropologicamente inscritto nel ventre molle di ogni società, anche in quelle più avanzate, malgrado il progredire dei tempi.
Nelle mani di Marielle Heller, che trae la vicenda dal romanzo omonimo di Rachel Yoder, manifesto femminista pubblicato tre anni fa, il film guarda con un certo umorismo alle storie di licantropi, lambendo il rinnovato trend del body horror con un certo distacco ironico, per creare la sua allegoria su un corpo che cambia, quello delle donne dopo la gravidanza, scombussolando ormoni, lacerando aspirazioni e continuità esistenziali. Il personaggio di Amy Adams non ha un nome, solo la connotazione del suo ruolo preordinato dalla società: è una madre, ma prima di partorire e di trascorrere le sue giornate tutte uguali occupando la totalità del suo tempo con il figlio, era un’artista dal grande avvenire, a cui quest’ultimo è stato inevitabilmente sottratto a causa dell’assenza del marito, perennemente in viaggio di lavoro. E quando presente, il marito – anche lui connotato dal suo ruolo – non fa altro che mostrare la sua incapacità e la sua indifferenza, forse anche il suo puerile egoismo, nell’accudire il bambino.
Tutto il film risiede nell’articolata ricerca di un equilibrio per liberare uno spazio altrimenti costretto, soffocante, totalmente destabilizzante. E poiché, nell’ambito familiare, nella società che quello stesso ambito familiare lo riflette in ogni mamma incontrata nelle attività quotidiane o al supermercato, ciò non è possibile, perché potrebbe essere scambiato in negligenza materna, la liberazione deve avvenire a un altro livello, istintivo, spontaneo, animalesco. Il dare la vita, inteso come funzione ancestrale della donna, per la regista, e su precisa ispirazione del romanzo, si trasforma in abbandono agli istinti primordiali come mezzo, istintivo, per recuperare la vera essenza di donna andata perduta. Non tanto con la maternità, ma a causa del ruolo assegnato ad essa, all’isolamento che ne consegue, alla banalità delle azioni sempre uguali a se stesse e all’obbligo di abnegazione, pena lo stigma sociale.
Il momento di progressiva trasformazione è sicuramente il tratto più interessante del film, grazie al tocco di realismo magico venato di surreale ironia proposto dalla Heller: i canini che si affilano, i sensi che si affinano, la peluria che si addensa sul coccige, la comparsa di una coda creduta una cisti, l’attrazione ferina esercitata sugli altri cani, l’abbaiare proposto come gioco. Il modello, ribaltato, è la scoperta della mostruosità alla John Landis in Un lupo mannaro americano a Londra, qua virato in un’esplosione individuale che altrove, ad esempio ne La signora ammazzatutti di John Waters, diventava crudeltà seriale per difendere la propria famiglia e non l’emancipazione individuale, come in questo caso.
Tuttavia, Nightbitch funziona meglio quando mostra e non nei momenti in cui esprime ipertroficamente le sue tesi libertarie. Significare l’ossessiva monotonia quotidiana attraverso un montaggio rapido e reiterato ai fornelli oppure agire attraverso una serie di scene potenziali in cui risulta evidente la frammentazione tra prassi sociale e pensiero ribelle è indice di un’ammirevole purezza cinematografica che stride apertamente con le lunghe tirate della voce narrante, intenta a spiegare il bisogno della propria liberazione. Passare dalla rivendicazione al dichiarato manifesto programmatico è un attimo ed è in quell’attimo che tutto quanto è stato costruito in precedenza, pur non osando operare uno strappo deciso (la riconciliazione della famiglia ha la meglio sulle istanze individuali), si perde vanificando malamente le premesse.