Jay Roach è conosciuto soprattutto per i suoi film comico-demenziali come Meet the parents e Austin Powers. Questa volta ha deciso di confrontarsi con un tema spinoso, quello delle liste di proscrizione che colpirono tanti artisti di Hollywood, tra gli anni ’40 e ’50, accusati di essere simpatizzanti degli ideali comunisti se non addirittura di costituire e rafforzare le attività di un presunto partito comunista negli Stati Uniti. Roach ci parla di Dalton Trumbo, famoso sceneggiatore che fu colpito da questo sospetto e messo all’indice.
Trumbo non è un biopic tradizionale. Non incentra tutta la sua narrazione sulle improvvise avversità che lo scrittore si trova ad affrontare. Piuttosto tenta, riuscendoci a tratti, di ricreare l’atmosfera di un epoca d’oro che in un breve lasso di tempo si fa cupa, colma di sospetti, di livori e di caccia alle streghe. Ottimo il cast, da Brian Creston nei panni di Trumbo a Elle Fanning, da Diane Lane ad Helen Mirren. Ne risentiremo parlare quando verranno annunciate le candidature all’Oscar.
Tra i tanti film asiatici presentati in questa 40ª edizione del Festival di Toronto, molti erano ripresi dal programma di Cannes, dall'ultimo film di Naomi Kawase a Jia Zhang-ke, da Hou Hsiao-hsien a Hirokazu Koreeda. Una delle anteprime mondiali più attese era, però, il film a episodi Hong Kong trilogy di Christopher Doyle. Un trittico che circolerà nei festival di tutto il mondo per mesi grazie al nome del suo regista che, come noto, è uno dei più famosi e celebrati direttori della fotografia del mondo.
C'è chi ritiene che il film non sia riuscito, in particolare nelle parti più intimiste, quelle con al centro i bambini, le loro voci, le loro impressioni. Ma noi non siamo d'accordo. La m.d.p. di Doyle si trova a suo agio tra le strade di Hong Kong, nelle scuole, nei tunnel, che possono ricordare alcune sequenze dei film di Wong Kar-way. Non è mai semplice mettere al centro di un film i bambini. Il rischio è quello di avere uno sguardo compiacente o ricattatorio e non sempre si riesce ad avere la leggerezza di tocco di un Kore-eda. Eppure, nonostante l’approssimazione di alcuni momenti (in particolare il modo in cui viene raccontata la rivolta degli studenti contro il governo cinese per ottenere una vera democrazia), Hong Kong trilogy conferma Doyle come un maestro dell’immagine, un cinematographer più che un filmmaker, che riesce a restituire un ambiente, una situazione.