Uno dei film più attesi tra quelli presentati in anteprima mondiale a Toronto era sicuramente Legend di Brian Helgeland, famoso soprattutto per la sceneggiatura di L.A Confidential e Mystic River. Un'opera che, in un certo senso, si appaiava all’altro gangster movie del momento, Black Mass di Scott Cooper con Johnny Depp. Si può dire che entrambi i film, ispirati a fatti reali, sono costruiti per esaltare la performance attoriale del protagonista, nel caso di Legend il poliedrico Tom Hardy, qui nelle duplici vesti dei fratelli Kray, protagonisti della malavita londinese dell’East Side tra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60.
Rispetto a Black Mass, che è film più corale, Legend si regge quasi interamente sull’interpretazione di Hardy, che ci regala due caratteri molto differenti tra loro: uno più esuberante, fuori dagli schemi, omosessuale quasi dichiarato, l’altro più sornione, più attento alle strategie economiche e le alleanze criminali. Un’interpretazione maiuscola che cela una certa rigidità e convenzionalità dell’impianto narrativo e visivo, con una ricostruzione degli anni '50/'60 estremamente di maniera. Un film godibile, comunque, che avrà un buon riscontro al botteghino a livello mondiale e che quasi sicuramente regalerà una nomination ad Hardy.
Ancora più atteso, dopo alcuni anni di silenzio (forzato o voluto?), era il documentario di Michael Moore, Where to invade next, dove con il solito sarcasmo il cineasta di Flint passa in rassegna una serie di paesi che all’America converrebbe invadere. Certo, con Obama presidente è più difficile per Moore entrare nei dettagli. A differenza degli altri pamphlet, questo gioca più sull’ironia kubrickiana per sottolineare la predisposizione di certi apparati del potere ad esercitarsi nel gioco della guerra, non importa se vera o simulata. L’importante è parlare di possibili conquiste, di nuove armi, di nemici da individuare.
Da Michael Moore non ci si potrà mai aspettare la leggerezza di tocco, mentre non mancherà mai una certa tendenza al massimalismo. Però, a differenza di Sicko e di Capitalism. A love story, Where to invade next recupera il ritmo e l'ironia pungente e tagliente di Fahrenheit 9/11, senza però l’urgenza emotiva che derivava dal soggetto di quel documentario. Sarà importante, per l’uscita italiana nelle sale cinematografiche, azzeccare il periodo giusto, quando l’attualità potrà meglio legarsi ad alcune tematiche del film di Moore.
Il massimo riconoscimento del festival, attribuito dal pubblico, è andato giustamente a Room di Lenny Abrahamson, regista irlandese per la prima volta in trasferta. Room racconta la drammatica storia di una donna rapita e violentata dal marito, che viene poi rinchiusa, per un lungo tempo, in una stanza angusta. Dramma tesissimo, mai banale, che registra entomologicamente la cronistoria di una follia e poi di una salvezza, Room è un film costruito perfettamente, con un equilibrio narrativo raro, prezioso, unico. Un kammerspiel claustrofobico che non cade mai nella tentazione del teatro filmato e che è impreziosito dall’interpretazione di un’attrice, Brie Larson (già importante attrice televisiva e del bellissimo Short term 12), che forse dovremmo iniziare a conoscere meglio e ad apprezzare anche in Italia.