Pur essendo uno dei festival più importanti, ricchi, influenti (in particolare per la corsa all’Oscar e la stagione autunnale americana), il TIFF (Toronto International Film Festival) non è un evento per la stampa. Ancora di meno della Berlinale, alla quale Toronto guarda come modello di festival inclusivo di una grande città.
Al TIFF vengono proiettati circa trecento film, molti dei quali in anteprima mondiale. Per il cinefilo e il giornalista c’è, però, la possibilità di recuperare almeno il 60% del programma cannense, l’80% di quello veneziano, più, appunto, quello che non passa a Venezia. Il massimo, direte. Non sempre. Perché anche il critico che sa come muoversi ai festival viene travolto da una sorta di ansia da visione, dato che a differenza di Cannes e, in parte, Venezia, le code, per chi ha un accredito stampa, sono minime se non nulle. Ma la giornata è sempre di 24 ore e davvero non si può vedere tutto, né assistere alla gran parte degli stimolanti incontri con gli autori in sala e in altri luoghi deputati o alle conferenze stampa.
A Toronto manca il glamour, l’atmosfera. La gente va al cinema, a vedere film in anteprima mondiale, con l’entusiasmo che ha un impiegato quando entra nel suo ufficio. Anche le star sul red carpet sfilano in modo estremamente informale: si ha l’idea che siano più accessibili, che si possano toccare. Da una parte riuscire ad avvicinarsi a Kristen Stewart, a Matt Damon, a Emily Blunt regala emozioni importanti anche per chi giovane non è più, dall’altra forse toglie quell’aura di inaccessibilità che rende i divi hollywoodiani ancora più affascinanti.
Allo stesso modo, capita di vedere code chilometriche per la proiezione di Sicario, in uscita in tutto il mondo pochi giorni dopo (il festival di Toronto si è svolto dal 10 al 20 settembre) e di essere in dieci in sala all’anteprima mondiale di Hong Kong trilogy, di Christopher Doyle, che in qualsiasi altro festival al mondo avrebbe fatto registrare il sold out. Per non parlare della sala deserta durante la proiezione del nuovo film di Sylvia Chang (Murmur of the hearts), nome importante nel panorama del cinema asiatico (hongkonghese e taiwanese in particolare).
Il TIFF, versione smaller e più british di New York, rimane comunque un grande evento, il vero grande festival di cinema del Nord America, capace di unire la grande spettacolarità di alcuni titoli, uno sguardo forse più attento rispetto a Venezia (che nella gestione Barbera cerca nuovi talenti soprattutto in America Latina) al cinema dell’Estremo Oriente, alcune chicche importanti e le anteprime di glorie nazionali come Jean Marc Vallee, che ha presentato qui Demolition, Guy Maddin e Patricia Rozema.
Il 40° anniversario, appuntamento sempre importante per misurare lo stato di salute di una manifestazione di queste dimensioni, ha confermato le importanti ambizioni del TIFF, secondo a nessuno su scala mondiale per quanto riguarda la capacità di attrarre le star (che preferiscono proprio Toronto ad altre kermesse per quell’atmosfera rilassata ed informale, e senza la presenza ossessiva della stampa) ma anche tante anteprime mondiali, perché non essendoci di fatto premi, anche i film d’autore non rischiano la stroncatura della critica che li può penalizzare poi con l’uscita in sala, come può avvenire invece a Berlino, Cannes e Venezia.
Forse da qualche titolo, vedi The Program di Stephen Frears sul caso Lance Amstrong o Maggie’s plan, ci si poteva aspettare qualcosa in più, ma il bilancio, soprattutto in termini di partecipazione di pubblico, è più che positivo.