Dopo Bloodless (2017) e Tearless (2021), Gina Kim conclude la sua trilogia dedicata alle cosiddette “US military comfort women”, reclutate in tutta la Corea del Sud per soddisfare sessualmente i militari delle forze armate statunitensi. Come i precedenti capitoli, anche Comfortless adotta la forma delle riprese a 360° per trasportarci, stavolta, nelle strade di American Town, uno degli anonimi centri urbani edificati appositamente per i soldati americani, oggi abbandonati e divenuti luoghi-simbolo dello sfruttamento delle donne sudcoreane.
Collocando sapientemente la macchina da presa nei punti nevralgici della città, lo sguardo dello spettatore abbraccia le strade e le vetrine dei negozi ormai non più in uso, sorvolando un panorama deserto in cui solo i gatti passeggiano indisturbati. Presentando una serie di tableau dall’alta qualità estetica, l'esperienza sembra aprirsi sulle note tipiche del dark tourism, una cifra che ha fatto la fortuna di molti luoghi-fantasma sancendo allo stesso tempo l’oblio delle storie dei loro abitanti. Tuttavia, facciamo presto l’incontro con gli spettri che popolano American Town, baluginando nelle vetrine dei negozi e attraversando il nostro campo visivo riflessi negli specchi dimenticati nei vecchi locali notturni. Sono proprio le comfort women.
È soprattutto l'arrivo della notte a risvegliare la memoria degli avvenimenti passati. Le azioni di violenza che queste donne hanno subito (tematizzate anche nelle precedenti opere) non vengono però mostrate direttamente, ma sono restituite dagli specchi in forma di frammenti riflessi. Alle immagini si aggiunge poi una dimensione anche sonora della memoria, nella forma di voice over che riproduce alcune delle frasi rivolte alle comfort women dai soldati americani: voci senza corpo che riecheggiano in spazi che questi ultimi hanno solo attraversato, senza mai abitarli. Imprigionati nelle cornici degli specchi, i corpi fantasmatici delle comfort women sono invece radicati, ma anche sezionati, all’interno degli stessi luoghi in cui hanno subito violenza.
Comfortless è un’esperienza cinematografica sotto diversi aspetti: dalla riproposizione in 360 dell’antica forma del tableau, con il suo montaggio interno all’inquadratura, fino alle sofisticate associazioni tra specchio e femminilità, un tòpos già problematizzato da registe come Agnès Varda in Cléo de 5 à 7 o Chantal Ackerman in Jean Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles.
Con questa esperienza esclusivamente audiovisiva, e solo apparentemente neutrale nella sua oggettività documentaria, Kim porta a segno un’operazione che, nella sua essenzialità tecnica, denota grande raffinatezza formale. Tale ricercatezza si fa ancora più evidente nella scena finale, che presenta un’inversione degli sguardi: quando uno dei fantasmi esce dalla sua cornice, volge lo sguardo in camera e, interpellandoci, chiede allo spettatore “chi sei?”, la risposta è tutt’altro che scontata. Quale posizione siamo chiamati a occupare nelle vestigia di una città popolata da fantasmi? A essere comfortless, dunque, non sono solo le comfort women, ma anche noi, come spettatori smascherati dall’esperienza.
Comfortless di Gina Kim (15’, Corea del Sud/USA)