Shin’ya Tsukamoto va alla guerra: il regista giapponese ha presentato in concorso a Venezia la sua ultima fatica, Fires on the Plain.
Tratto dall’omonimo romanzo di Shohei Ooka, il film vede protagonista un soldato giapponese, Tamura, che passa gli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale nelle Filippine. Gli uomini intorno a lui, per sopravvivere, si danno al cannibalismo, ma Tamura cerca con orgoglio di non abbassarsi al loro livello.
La prima impressione che si ha di fronte a Fires on the Plain è quella di essere immersi in un vero e proprio bombardamento sensoriale: Tsukamoto (come sua abitudine) punta su un montaggio frenetico e su un sonoro invasivo che non lascia scampo a personaggi e spettatori. La “follia della guerra” è rappresentata in tutta la sua brutalità, perennemente in campo e approfondita con discreto spessore.
Dopo Kotoko (che, in un certo senso, era già un film bellico), Tsukamoto prosegue nel mettere in scena le ossessioni che hanno attraversato tutta la sua filmografia: il lato oscuro dell’animo umano che prende il sopravvento su quello positivo; il rapporto tra uomo e natura; la marcescenza della carne.
Il corpo, un tempo (nel cinema dell’autore) attraversato da fili metallici, si fa ora parte integrante di una natura sublime e selvaggia, contro la cui bellezza si stagliano gli orrori della guerra.
Non tutto è al posto giusto in Fires on the Plain (lieve calo nella parte centrale, alcune scelte audiovisive che sanno di già visto) ma il film, seppur imperfetto, rappresenta un’importante esperienza cinematografica che non può lasciare indifferenti.
Da segnalare, inoltre, che dallo stesso romanzo è stato tratto un altro (bellissimo) lungometraggio firmato da Kon Ichikawa, nel 1959.