«Io non credo in nessuna religione. (…) Dio non parla alla Chiesa, parla alle persone» esclama Michael, il protagonista di El Cristo ciego. Michael ripara le biciclette in un villaggio polveroso vicino al deserto di Atacama, in Cile. Da bambino si è fatto bucare i palmi delle mani da un amico per procurarsi delle stigmate come quelle di Gesù Cristo e da allora si è convinto di poter compiere miracoli e aiutare la gente. Un giorno, dopo aver saputo che Mauricio, un suo vecchio amico d’infanzia, rischia di perdere una gamba, intraprende un viaggio a piedi attraverso il deserto per compiere una miracolosa guarigione.
È tutto qui il film dell’esordiente Christopher Murray. La storia di un viaggio attraverso la fede che intende esplorarne derive e contraddizioni. E che fa della dottrina religiosa il seme da cui germogliano quesiti e interrogativi ambigui, senza però mai prendere posizione né in favore né contro essa.
Michael nel suo viaggio incontra molte persone, c’è chi lo accoglie come un ciarlatano e tenta di scacciarlo (sempre in nome della fede) e chi invece si affida totalmente alle sue (presunte) doti di salvatore e chiede aiuti, benedizioni e miracoli. Ma egli appunto, a differenza delle persone che incontra, non crede in nessuna religione. Anzi, è fermamente convinto delle proprie doti e delle proprie capacità. Rifiuta il culto dei santi e i dogmi ecclesiali e parla sempre e soltanto di Dio e del potere che questi ha di entrare nelle persone, di cambiarle e di salvarle. Risultando una minaccia per chi considera la religione cattolica un culto legato alle dottrine della Chiesa e vede nell’autoreferenzialità della vocazione di Michael un pericoloso vulnus contro la fede. Ma anche per chi si concede alle sue millantate virtù senza trovare sollievo dalle sofferenze.
La cecità del titolo è forse legata al bisogno di trovare qualcosa in cui credere e che risponda ai bisogni primari di tutta la povera gente che confonde il fideismo con la fede. Ma è anche, a ben vedere, il sintomo dell’impossibilità di Michael di guardare (oltre) la propria finitezza e di non accettare di non essere capace di salvare gli altri. Per lui che fa il meccanico e mette a posto le cose, non essere in grado di “riparare” anche le persone diventa una vera e propria condanna. E anche se il regista non arriva a dire che è la fede stessa e essere la forma più pura di cecità, emerge la rappresentazione del sentimento religioso quale costruzione di un bisogno fatto di necessità e di immaginazione. Perché, come le parabole che Michael racconta durante il suo cammino e come il finale del film mostra molto bene, non è importante che i miracoli avvengano per davvero, ma che ci sia sempre qualcuno disposto a crederci.