Guarda!
Perché andiamo, se ancora lo facciamo, al cinema? Per divertirci, per imparare, per condividere un'emozione?
Contestuale
Disvelare
Ogni risposta è valida, intendiamoci, ma, nel caso specifico, nell'era in cui davanti al proprio computer è possibile, almeno in teoria, vedere tutto come mai ci ostiniamo a venire proprio qui, a frequentare un festival del cinema, una mostra come quella di Venezia?
Forse la risposta sta in un approccio fenomenologico ai film che avremo, anzi che abbiamo la possibilità di vedere in queste sale.
Vedere film a un festival come la Mostra del Cinema di Venezia è importante perché ci aiuta a passare da un'indistinta condizione di ricerca “empatica” (e cioè di banale, sovrastimata, di fatto impossibile “vicinanza con l'altro”) ad una molto più interessante tensione verso l'”entropatia”, un tentativo, come ha ben argomentato il filosofo e matematico Edmund Husserl, di percepire davvero il mondo attraverso lo sguardo dell'altro.
Come avvicinarci alla conoscenza dell'essenza stessa dei fenomeni?
Come superare quel muro che mettendo la realtà da una parte e il soggetto, con le proprie caratteristiche, dall'altra rischia, nelle migliore delle ipotesi, di appiattire una possibile conoscenza del mondo, vincolandola al dato sensibile?
La soluzione, semplice e geniale, ce la propone lo sguardo dell'altro.
Lontani dal negare il mondo, restii a chiuderci nell'eccesso della soggettivizzazione del giudizio, ciò che dobbiamo fare è mettere tra parentesi i presupposti più scontati del senso comune e finalmente guardare alle cose in sè.
Il senso di ciò che abbiamo davanti si svelerà davvero a noi solo quando cominceremo a considerarlo come “correlato di coscienza”, come “oggetto intenzionato”.
Intern
Cielo
Guardiamo un mondo di cui facciamo parte. Come potrebbe questa appartenenza non influire sul nostro giudizio?
Ecco. I film di Venezia, mai come quest'anno, mi sono parsi altrettanti viatici verso questa consapevolezza.
Più e meglio che correlati di coscienza, che oggetti intenzionati in primis, essi ci fanno da tramite, si fanno ponte verso altrettanti e più significativi fenomeni.
In breve tutto ciò che ci circonda acquista nuovo e più rilevante segno proprio grazie a queste visioni.
Disteso
Hopper
Alle “visioni”, ai“punti di vista” così intimamente differenti di questi registi demiurghi affidiamo con fiducia i presupposti per un disvelamento che accompagni le nostre coscienze verso una maggiore consapevolezza del mondo.
Se infatti gli sguardi degli adulti della prima foto di questo articolo sono tutti rivolti al “palcoscenico” della passerella come mettere in dubbio che il rapporto più denso di significato stia tra la madre ed il figlio a lei abbracciato e che, tra l'altro, neppure la guarda?
Si conosce solo ciò che si ama come dice Sant'Agostino in Le diverse questioni, e d'altronde non è proprio Roland Barthes a scrivere nel 1980 pochi mesi prima di morire ne' La camera chiara di “riconoscere” sua madre SOLO in una foto in cui lei, molto piccola, ancora bambina, sta in un giardino d'inverno?
È un'espressione del viso che lui definisce di innocenza a renderla assolutamente sua madre: “Vedevo la bontà che aveva formato il suo essere subito fin da piccola. La sua bontà era appunto fuori gioco era qualcosa che apparteneva a lei”.
E se innocenza viene etimologicamente da “non sapere nuocere”, qui oltre ad un semplice non-nuocere si scatena finalmente un processo di autentica agnizione: il viso della madre “afferma” un sentimento di dolcezza, e, attraverso questo sentimento, Barthes “vede” davvero e per la prima volta in un'immagine la propria madre.
Turner
Colors
Le immagini di questo pezzo provano a fare eco alla sue parole (parole quest'anno messe davvero in primo piano anche da film diversissimi qui a Venezia 73, da One more time with feeling di Andrew Dominik a Akher Wahed Fina (The last of us) di Ala Eddine Slim.
Nella seconda foto pubblicata il logo onnipresente della Mostra si contestualizza con due oggetti, che solo il caso (fortunato) poteva mettergli accanto. Lontano dalla loro funzione questi due cestini diventano quasi metafisici, Un mero parallelepipedo accanto ad un ideale cilindro. Che cos'è più elegante, il logo, pensato per esserlo, o gli oggetti, casualmente ad esso giustapposti?
Terza foto: il concetto di disvelamento è reso più evidente dalla prospettiva esaltata dall'uso di un'ottica esasperata (come sostiene il protagonista in 76 minutes and 15 secons with Kiarostami di Samadian Seifollah qui presentato: “Dio non sarà mai abbastanza ringraziato per aver inventato il grand'angolo”.
Nella quarta immagine un altro logo distorto della Mostra è illuminato nella sua periferia da un cielo (quinta foto) solo apparentemente innocuo.
Forse non ci resta che distenderci ed abbandonarci ad “altre” visioni mentre il mondo ci passa inconsapevole accanto.
Tanto le atmosfere hopperiane non smetteranno di presentarcisi, come ad esempio la sera in Casinò, all'uscita della Sala Perla , mentre per ritrovare un po' di Turner (ibridato con gli anni di Daguerre) è necessario spostarsi almeno fino al retro del Palabiennale, dove la laguna, quando abbandoniamo lo schermo, ci ricorda finalmente un po' di sano contesto .
Ma considerando il clima (culturale e meteorologico) prevalente sarebbe ingiusto non chiudere con un tripudio di colori. Quest'anno, davanti al red carpet, a Venezia è tornato finalmente anche un po' di folklore divistico.
Checché se ne pensi (vedi la morale del divertente, arguto, raffinato e conseguente El ciudadano ilustre di Gastón Duprat e Mariano Cohn) è consolatorio.
Non vi intristiva nelle ultime edizioni vedere al Lido più poliziotti che fan?