La 73° Mostra di Venezia si è conclusa con la vittoria di The Woman Who Left di Lav Diaz. Leone d'oro sacrosanto, meritato, quasi scontato, ora che Diaz è stato finalmente accettato nei concorsi dei grandi festival internazionali (manca ancora Cannes, che quattro anni fa non se la sentì di mettere Norte in competizione).
Il problema è che il riconoscimento più importante dato a un film filippino in bianco e nero e lungo tre ore e quaranta minuti ha finito per generare il solito dibattito circa l'opportunità di premiare l'arte con la maiuscola (dunque, dicono, elitaria, pallosa, classista) lasciando a bocca asciutta un cinema ritenuto a torto o a ragione più popolare, accessibile, capace di dialogare con il pubblico della sala.
Ancora una volta, insomma, il discorso non si è concentrato sul cinema in sé, ma sulla sua ricezione, sulla forma mentis di chi lo guarda, sulle opposte idee che ogni critico o spettatore porta avanti e spera di veder rappresentate in una selezione o in un palmarès. Tutte questioni, intendiamoci, che vanno bene, che rendono vivo e pure divertente il mestiere che facciamo qui sopra, ma che in qualche modo ne travisano il senso, ne spostano l'obiettivo. Invece che guardare la luna si finisce per fissare il dito che la indica; e la luna, inevitabilmente, resta sullo sfondo.
Lo ha scritto Pietro Bianchi nella sua recensione di Voyage of Time di Malick: "prima ancora di giudicare un film, sarebbe buona abitudine provare a pensarlo". Pensarlo, cioè guardarlo, individuarne il discorso (anche se esiguo) e poi trovare un legittimo sguardo critico. Un film - qualsiasi film, da Lav Diaz a Malick a Piuma - viene prima di chi lo guarda. Sempre. E a volta anche dopo, perché non sta scritto da nessuna parte che compito del cinema sia adattarsi alle molteplici mediazioni culturali e sociali che portano una persona ad andare in sala o a richiedere l'accredito di un festival. Un film può anche permettersi di andare oltre il proprio pubblico, di trascinarlo in luoghi che ancora non si conoscono, provando magari a lastricargli in qualche modo il cammino... Tanto per l'aspetto intellettuale quanto per quello emotivo.
Prendere sul serio questo lavoro, ragionando anche e non solo sui festival e sui film che vengono proposti, è l'unica cosa che rende la critica ancora credibile. Anteporre l'argomentazione al giudizio, l'unico compito che un critico dovrebbe avere. Non per mettere la propria bandierina su un film, ma, al contrario, per lasciare che ogni film circoli liberamente e se la giochi tanto contro gli elogi quanto contro gli attacchi, gli sbuffi e le poltrone che sbattono perché quando è troppo è troppo...
La Mostra di Venezia di quest'anno è stata attraversata da temi e situazioni che tornavano di continuo: la necessità di aggrapparsi alla parola come segno di civiltà, realizzazione identitaria o riconoscimento di un legame fra uomo e realtà (Arrival, Through the Wall, Le beaux jours d’Aranjuez); la menzogna, il sogno, l'immaginario, la finzione insomma, come paradossale forma di discorso reale e storico (Jackie, La La Land, Frantz, Nocturnal Animals, El ciudadano ilustre); all'opposto, la concretezza del reale, la banalità dell'umile verità, della vita così com'è, in quanto scacco dell'individuo di fronte alla Storia (Austerlitz, Une vie, Monte, Colombi, Jours de France, film francese visto alla Sic) o, ancora all'opposto, via d'accesso al mistero del tempo e della vita stessa (Dawson City - Frozen Time, Spira Mirabilis); le domande senza risposta della fede e il confronto con il silenzio di Dio o l'illogicità della sua parola (The Woman Who Left, El Cristo ciego, ancora Jackie)...
Di questo e altro abbiamo parlato nei quotidiani reportage dalla Mostra, e torneremo a parlarne nella rivista di carta. E tutto questo vale più della discussione circa l'opportunità di premiare Lav Diaz, umiliare per l'ennesima volta Larraín, dimenticare Hollywood o dare un premio a The Bad Batch. Perché un festival non serve a testare lo stato di salute del cinema (che sta bene, male, benino o malissimo a seconda di come lo si prende), e nemmeno a stabilire gerarchie di artisticità e popolarità fra il musical e la rottura di palle filippina, ma per l'unica e semplice - dunque difficilissima - ragione di mettere alla prova la nostra apertura di sguardo e di mente.