Se provate a fermare qualcuno che abbia tra i venti e i trent’anni in giro per Hollywood (ma la stessa cosa potrebbe accadere a Williamsburg/New York, Shoreditch/Londra, Neukölln/Berlino etc.) e chiedergli what you do in life? (domanda che in inglese è ambigua, perché sta a metà tra “che lavoro fai?” e “qual è la tua passione nella vita?”), la risposta - con uno spettro di variazioni minimo - sarà: “faccio lo sceneggiatore”, “faccio il DJ”, “faccio l’attrice”, “suono in un gruppo” etc. È solo insistendo che si verrà a sapere la realtà della propria condizione: “sì, nel frattempo lavoro in un coffee shop”, “intanto faccio il postino per pagare le bollette”, “ho un part-time in un ristorante”. Insomma i miei sogni e la mia identità stanno da una parte, ma nel frattempo, intanto, temporaneamente…
È la grande contraddizione della cosiddetta “classe creativa” ai tempi della gentrification delle grandi metropoli occidentali (e dell’impennata dei valori immobiliari data dalla finanziarizzazione dell’economia): immaginarsi di accedere a un’èlite di lavori culturali al top mentre le città si riempiono di un’enorme quantità di pessimi lavori dequalificati. La temporalità di questa generazione è allora quella del transito e dell’interstizio (appunto, i “nel frattempo”, gli “intanto”, i “temporaneamente”), mentre la spazialità è quella divisa tra la realtà di una condizione di impoverimento, e l’immaginario “stellare” dei propri sogni. Il problema è: come riuscire a starci in mezzo?
È proprio questa contraddizione che viene messa in scena in La La Land, il bel film d’apertura di questo Festival del Cinema di Venezia, e a cui il regista Damien Chazelle prova a dare – ed è una scelta che non possiamo che giudicare azzeccata – la forma del musical. È la storia di Sebastian (Ryan Gosling) musicista jazz con la passione per le derive più sperimentali e free, che non volendo scendere a compromessi per la sua arte è costretto a suonare canzoncine nei ristoranti della città in cambio di pochi dollari; e di Mia (Emma Stone), attrice-wannabe che tenta di sbarcare il lunario passando da un’audizione a un’altra per piccole particine in serie Tv o in film di cui non le interessa niente, mentre nel frattempo lavora svogliata in un coffee shop degli Universal Studios.
Se la realtà è fatta di lavori sottopagati, traffico infernale, storici locali jazz che chiudono e diventano tapas bar, cinema che scompaiono, feste pacchiane, case piccole e fatiscenti etc., i sogni sono colorati, stellari, tanto irreali quanto affascinanti. E nei sogni, come in ogni musical che si rispetti, si canta e si balla. Pare che in La La Land la vita diventi sopportabile solo quando è filtrata tramite l’immaginario del sogno: e infatti le parti musicali – e in questo senso Chazelle dimostra di comprendere efficacemente la posta in palio formale del musical – si vengono a inserire proprio nei momenti di frattura e contraddizione, in cui la realtà mostra più chiaramente degli opposti inconciliabili. E c’è bisogno di un gesto di fuga.
Un film del genere non poteva che essere ambientato a Los Angeles. È proprio la città californiana uno dei veri protagonisti del film (molti i luoghi riconoscibili della città: dal Griffith Observatory alle Watts Tower, da Studio City alle colline di Hollywood) e questo per un motivo molto semplice: è Los Angeles la città per eccellenza dove il problema dei sogni e della realtà viene messo a tema; dove sembra che persino l’urbanistica e le stesse strade siano fatte di sogni e d’immaginario (come si vede in Los Angeles Plays Itself di Thom Andersen). È questo che ha fatto di Los Angeles la città che storicamente è stata identificata con il progetto americano di realizzazione dei propri desideri. Ma se il cinema americano ha spesso saputo guardare anche all’ “altra faccia” di L.A. – la Hollywood dei boulevard of broken dreams; quella dei dive bar, degli strip club di Hollywood, delle prostitute e dei loser: quel cinema insomma che ha saputo guardare al sogno di Los Angeles dal punto di vista del disincanto – il musical è invece un genere che per ragioni quasi strutturali non può che prendere seriamente i sogni. Alla lettera.
Qual è dunque la relazione tra i sogni – che Mia e Sebastian tentano in ogni modo di realizzare – e una realtà disincantata e mortificante? Come fare per trovare una mediazione tra l’immaginario e la realtà? Bisogna forse cedere sul proprio desiderio e perdere la propria autenticità (magari andando a suonare in una band commerciale, nel film interpretata da un bravissimo John Legend)? È forse giunto il momento, dopo l’ennesima delusione, di “crescere” – come dice a un certo il personaggio interpretato da Ryan Gosling – e trovare un lavoro realistico? O i sogni possono diventare realtà? O forse è invece possibile continuare ad abitare questa scissione tra una vita che si nutre unicamente delle proprie illusioni e una realtà di piccoli lavori sottopagati e di povertà e marginalità?
La La Land in questo senso mostra forse il suo limite più grande: quello cioè di non riuscire ad affrontare con la sufficiente radicalità non tanto il difficile rapporto tra sogno e realtà (che a volte nel film pare limitarsi a un problema di dove mettere l’asticella del compromesso) quanto la realtà stessa del sogno. Il sogno insomma non è né una fuga dalla realtà né un’espressione del proprio vero Sé: è in sé stesso un’esperienza di scissione. E questa è una delle grandi riflessioni proprio del genere musical. Come veniva sottolineato da Gilles Deleuze in Immagine-Tempo parlando dei musical di Minelli, è lo statuto problematico del sogno la posta in palio del genere: in Yolanda and the Thief o in The Pirate ad esempio, Gene Kelly e Fred Astaire entrano nel sogno di una ragazza, ma questa cosa invece che essere un’esperienza risolutiva non può che portarsi dietro dei “rischi mortali” (ne è un esempio la lunga scena di Fred Astaire in Yolanda and the Thief che termina in modo angosciante con l’attore-ballerino intrappolato e quasi soffocato da delle lunghe strisce di stoffa). Il sogno simbolizzato dalle scene musicali di Minelli, non è “la soluzione” degli impasse della realtà, è semmai la loro messa in forma. Il problema dei sogni insomma non è la loro mancanza di realtà ma il loro “troppo” di reale.
In questo senso il limite del film si esprime anche nel deficit “tecnico” di Emma Stone e Ryan Gosling, le cui coreografie nelle scene di ballo sono al più decorative, ma che non riescono mai a “farsi immagine” in sé stesse e finiscono per rimanere un po’ “a lato” della storia (e non è un caso che le scene coreograficamente più riuscite siano proprio quelle collettive senza i protagonisti, come quella – davvero meravigliosa – attorno alle auto in coda sulle freeway di Los Angeles all’inizio del film). È come se il film riesca a pensare agli intermezzi musicali solo come proiezioni immaginarie “oltre” la realtà stessa, e non come a una forma di compromesso con il reale. Ma questo più che essere un problema del pur ottimo film di Chazelle è – si potrebbe dire – un problema del periodo storico in cui viviamo: dove l’immaginario più che mettere in forma d’immagine le contraddizioni del reale diventa lo strumento per la loro dissimulazione. E un modo per evitare di guardarle veramente.