Come affrontare il tema del desiderio di genitorialità, in un paese in cui l’adozione per le coppie eterosessuali è complicata da requisiti restrittivi e per single e coppie omosessuali addirittura negata?
Un paese del genere alimenta la spinta a soddisfare tale desiderio in modi estremi, attraverso soluzioni illegali. In Italia come altrove la soluzione può essere a portata di mano, o meglio di portafogli. Esiste - è un fatto - un mercato nero in cui si commerciano clandestinamente neonati aggirando le leggi e affidando la realizzazione dei propri desideri a madri surrogate che affittano a caro prezzo il loro utero e accettano di perdere ogni libertà sul proprio corpo e sui propri figli.
Maria (Micaela Ramazzotti) è una di queste donne. Desidera metter su famiglia con Vincent (Patrick Bruel), un misterioso uomo di origine francese che vive da tempo a Roma e che Maria ama; ma lui non ha lo stesso desiderio di paternità. Il loro legame malato è basato sulla dipendenza affettiva e sulla manipolazione. Vincent ha trasformato il corpo della compagna nella loro principale fonte di sostentamento. In quindici anni di relazione, Maria ha portato a termine diverse gravidanze, ma ogni volta non le è stato possibile diventare madre. Il bambino diviene merce di scambio monetizzata. L’ultima gravidanza diventa perciò per Maria occasione di ribellione contro il compagno, del quale è stata complice silente sopportandone violenze e soprusi.
Maria parla poco, oscilla tra la confusione e la lucidità e quando si manifesta esplode con irruenza. Tenta in ogni modo di boicottare Vincent: mente, disobbedisce, scappa. Cerca sempre dei nuovi alleati, nel medico che segue le sue gravidanze o nel nuovo vicino di casa, per realizzare il suo piano di sabotaggio. Il dottor Minerva le concede il suo aiuto non senza avanzare delle esplicite richieste sessuali. L’unica cosa di cui Maria dispone è il suo corpo abusato e maltrattato, che tramuta in strumento di resistenza. Poco importa se si farà ancora del male.
Una famiglia, opera seconda di Sebastiano Riso, s’ispira a storie vere traendo spunti da fonti dirette. Per la sua scrittura il regista e sceneggiatore s’è avvalso della collaborazione di vari procuratori che hanno condotto delle inchieste su diversi casi, facendo emergere questa realtà sotterranea della quale si parla poco. Il film tocca questioni delicate cercando di tenersi lontano dai moralismi per entrare piuttosto nella sfera intima ed emotiva dei personaggi, stando letteralmente addosso loro. La macchina da presa non li molla mai, li lascia soltanto quando la sofferenza e il dolore diventano insopportabili per mostrare, in controcampo, la totale indifferenza di ciò che, ignaro o incurante, li circonda.
Ma la sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Stefano Grasso e Andrea Cedrola (già collaboratori per il precedente Più buio di mezzanotte), si attorciglia su se stessa, è confusa, inverosimile, poco plausibile nel tratteggiare le relazioni tra i personaggi. I frequenti primi piani e un uso eccessivo di lenti macro danno forma a un film irrisolto e sbilanciato, tutto concetrato sulle vicende umane senza però contestulizzarle e renderle credibili; non abbastanza incisivo dal punto di vista della scrittura e non efficace nel mettere a fuoco un gesto filmico che corrisponda a un'affermazione politica forte su un tema tanto importante e decisivo.