I temi in un festival del cinema (magari anche “monster” come questo) sono come l'aria. Si respirano così naturalmente quando sei in sala che finisci per non farci più caso.
Un po' come i mille loghi che scorrono sotto, sopra e intorno a noi, determinando l'ambito in cui “viviamo” in questi dodici giorni di fine estate.
Le storie si intrecciano, si sovrappongono, scandiscono il tempo (e lo spazio) delle tante, troppe, proiezioni che frequentiamo, o meglio, cui ci sottoponiamo, in una sorta di punizione auto-inflitta. Un po' come in queste ringhiere, che separano i due spazi sui due livelli esterni di VENEZIA 74.
Poi si entra in sala. E il mondo magicamente cambia. Come in Les bienheureux di Sofia Djama, che entra perfettamente nel tema generale di questa Mostra: figli (educazione e formazione) e famiglie.
Che succede in Algeria dopo una guerra civile durata quasi vent'anni? Ogni generazione ne paga lo scotto. Anche la famiglia di Amal e Samir, lui medico che pratica (a pagamento) aborti illegali nel suo studio fingendo di fare “resistenza”, lei docente all'università. Sono progressisti, democratici, aperti alla modernità, al merito, alla libertà d'espressione, ma devono fare i conti con un figlio che preferisce farsi canne tutto il giorno invece di studiare, con amici che o sono vittime scampate al martirio o pericolosi fiancheggiatori di sedicenti, confusi, aspiranti terroristi islamici.
L'inferno pare attenderci, come in questa foto della parte alta, deconstestualizzata, del Palazzo del Cinema.
E figli ribelli, che in realtà vogliono solo sopravvivere, anche in Lean on Pete di Andrew Haigh, in La Melodie di Rachid Hami o in Sweet Country di Warwick Thornton.
Non si sottraggono i film italiani, che declinano il tema in commedia e musical come in Ammore e malavita dei Manetti Bros, o in pseudo neorealismo come in L'equilibrio di Vincenzo Marra, o nel nuovo film di Segre, L'ordine delle cose.
Contrasti e liti, desideri inappagati e lotte, figli piccoli o cresciuti. Ma sempre figli. Sempre in cerca di una madre, da trovare in tante amanti, perché non si è ricevuto l'unico affetto che si è sempre desiderato (vedi buon ultimo il Soldini de Il colore nascosto delle cose).
Forse solo il sogno potrà salvarci.
In questa atmosfera The Cousin di Tzahi Grad propone una lettura più originale.
Che succede se un manovale tuttofare arabo-musulmano, che pare animato dai migliori sentimenti, piomba nella vita quotidiana di un paesino israeliano? Se poco dopo il suo arrivo, una giovane viene violentata, e quella comunità, vittima di stupidi pregiudizi, finisce per accusarlo? Quando a credergli sarà solo il suo datore di lavoro (ma anche questa fiducia, a tratti, vacilla) sarà inevitabile identificare questa figura con quella di un padre (o almeno di uno zio, vedi il titolo del film che gioca sulla parentela tra arabi ed ebrei: se non possono essere fratelli che almeno siano cugini).
Nelle foto vediamo i protagonisti di questo bel film, applauditi da un'entusiasta sala Darsena all'anteprima per la stampa. Prima il giovane interprete arabo Ala Dakka e poi il regista, nonché protagonista del film, Tzahi Grad.
Trattandosi di un foto diario, chiudiamo con un inno al voyeurismo di questo pubblico veneziano, quest'anno tornato così numeroso, che si bea di passerelle e jet set.
E soprattutto, con uno sguardo al contrario, empatico, della fotografa del film iraniano-egiziano Looking for Oum Kulthum di Shirin Neshat e di Shoja Azari, sorpresa dall'obbiettivo.