Quando ci si appresta a vedere un film, è inevitabile che vi siano pre-giudizi che orientano impressioni e valutazioni. I precedenti lavori di un regista sono il principale elemento che contribuisce a forgiare questi pre-giudizi. Nel caso di David Oelhoffen il film che aveva presentato nel 2014 proprio qui a Venezia (Loin des hommes) deponeva a suo favore: una sorta di western ambientato in terra d’Algeria che, sviluppando molto liberamente un racconto di Albert Camus, affrontava il tema dell'identità e del rapporto tra individuo, comunità e legge.
Qui, via via che la visione prosegue, il pre-giudizio trova conferma. Anche se il tono e il ritmo non potrebbero essere più diversi (disteso, con dialoghi rarefatti e molti campi lunghi Loin des hommes, teso, concitato e con una camera che sta addosso ai personaggi Frères ennemis), entrambi condividono la volontà di utilizzare le strutture di genere per indagare gli stessi motivi tematici (l’appartenenza a una comunità definita su basi etniche e i conflitti tra identità ascritta e libertà di scelta di un individuo, tra fedeltà e tradimento, con specifico riferimento all’integrazione delle popolazioni di origine nordafricana nella società francese).
Oltre a questi pre-giudizi, in un festival la visione forzatamente ravvicinata di un gran numero di film crea spesso collegamenti incongrui fra gli stessi. Per esempio, all’inizio di Frères ennemis, quando vediamo una squadra d’assalto della polizia salire in fila le scale di un palazzo per compiere un’irruzione in un appartamento, vengono subito alla mente le inquadrature pressoché identiche che si vedono in Double vies (è una scena della serie tv interpretata da Selena, l’attrice impersonata da Juliette Binoche). Nel film di Assayas l’inserto ha un carattere dichiaratamente ironico (per quanto girata senza espliciti intenti parodistici appare buffa per la presenza, tra i poliziotti, della Binoche e - identificando un luogo comune della serialità poliziesca - intende sottolinearne il suo carattere ripetitivo e prevedibile).
E anche questa suggestione, per quanto estemporanea, trova purtroppo conferma. Se l’uso della tensione poliziesca per esplorare, attraverso una vicenda di infiltrati, i conflitti tra le molteplici appartenenze di un individuo non è nuovo (The departed di Scorsese per citare il primo titolo che mi viene in mente, ma altri se ne potrebbero indicare), la fattura di Frères ennemis – nella definizione convenzionale dei personaggi, nell’energia muscolare che la percorre incessantemente e nei colori metallici della fotografia – ha caratteri che la fanno assomigliare a una puntata di un poliziesco per la tv, che indulge (come nella scena di apertura) in situazioni altamente stereotipate e che, per di più, appesantisce lo svolgimento con l’enfasi con cui vengono sottolineati gli abbracci (numerosissimi!) tra i protagonisti o (fin dalla prima sequenza) i loro sguardi pensierosi, dietro i quali dovremmo intuire chissà quali tormenti.