In seguito all’ictus che colpisce l’anziano padre, una donna argentina che vive a Parigi torna in patria dove ritrova, oltre al padre costretto in rianimazione, la madre e la sorella, con le quali dà vita a una resa dei conti che la lontananza aveva fino a quel momento rinviato. La Quietud (ossia “quiete”) del titolo è il nome della grande tenuta famigliare dove le tre donne vivono. Non è difficile prevedere che in un luogo che ha questo nome, gli eventi destinati a svolgervisi avranno, al contrario, un carattere turbolento e contrastato. Quello che il ritorno della donna porta con sé è infatti la rivelazione di un complicato garbuglio di tradimenti, inganni, segreti e rancori. E non si tratta solo di questioni famigliari e di conflitti tra individui: dietro il privato si cela – non potrebbe essere altrimenti dato che siamo in Argentina – la Storia con i suoi drammi collettivi.
La svolta che conduce la vicenda a confrontarsi col mai risolto trauma nazionale dei desaparecidos crea un legame col precedente film di Trapero, Il clan, visto che in entrambi i casi quel che interessa sottolineare è l’intreccio tra la rispettabilità della famiglia borghese, i guadagni economici e gli innominabili crimini politici della dittatura (qui si viene a sapere che, negli anni della giunta militare, c’era chi si appropriava “legalmente” di terreni e immobili appartenenti ai detenuti…).
In realtà, però, il motivo storico appare qui una protesi posticcia che si integra malamente con l’impianto generale della vicenda. Il territorio in cui si muove La Quietud è – chiaramente – ben diverso da quello de Il clan. Non più l’azione di matrice scorsesiana, ma qualcosa che sta tra la commedia e il melodramma con una confezione che aspira a un’eleganza internazionale: colori patinati, canzoni accattivanti (in francese e in spagnolo), un’interprete (Bérénice Bejo) di fama mondiale e ambientazioni da rivista di viaggi, tra grandi ville, cavalli e fenicotteri.
Il risultato è, per la verità, molto deludente e segna un evidente passo falso in una filmografia come quella di Trapero già molto discontinua in termini di qualità dei prodotti realizzati. Se, come detto, il film precedente nasceva sotto il segno di Scorsese, questo sembrerebbe piuttosto richiamare alla mente le storie famigliari di Gabriele Muccino: la volontà di portare al limite il tasso di improbabilità della vicenda attraverso l’accumulo esasperato di svolte narrative e scene madri, la deliberata scelta di far trascolorare, a rischio del ridicolo, la tragedia nel comico e un finale nel quale, non si sa se cinicamente o in chiave critica, tutti i conflitti e i drammi paiono d’improvviso appianarsi in una smaccata celebrazione della famiglia e dell’unione dei suoi membri, ricordano – scelta deliberata o somiglianza contingente? – il mondo cinematografico del regista italiano. Che Trapero, però, riecheggia in modo spento, senza la sfacciataggine dell’originale.