A ottant’anni appena compiuti e a distanza siderale dal suo ultimo western per il cinema – che per i puristi era Wild Bill (1995) mentre per tutti gli altri Ancora vivo (1996) – e con in mezzo le significative esperienze televisive di Deadwood (2004) (di cui ha diretto il pilot) e soprattutto dello straordinario Broken Trail – Un viaggio pericoloso (2006) Walter Hill si riaffaccia a quello che è senza dubbio il suo genere prediletto. E tenta un’operazione di svecchiamento un po’ goffa dove prova coniugare temi, personaggi e situazioni del western tradizionale con le istanze del cinema e del mondo del presente.
Dead for a Dollar racconta del bounty killer Max Borlund (Christoph Waltz) che viene incaricato dal ricco uomo d’affari Martin Kidd di recarsi in Messico per salvare la moglie Rachel (Rachel Brosnahan) rapita dal soldato disertore Elijah Jones. Durante il viaggio si scoprirà che i fatti sono molto diversi da come li ha raccontati Kidd e per venire a capo della situazione Borlund – con l’aiuto dell’ex commilitone di Jones Alonzo Poe – dovrà vedersela con il piccolo esercito del ricco signorotto locale Tiberio Vargas con cui entra subito in conflitto e con il suo antico nemico Joe Cribbens (Willem Dafoe) che gli aveva giurato vendetta tempo prima.
Dietro a una trama tanto classica e ricca di topoi e cliché del genere – compresi i twist narrativi con cambi di schieramento, tradimenti e doppigiochi – si nasconde il tentativo, come si diceva, di aggiornare anche il western al presente, inserendo tematiche abitualmente estranee al genere per creare una sorta di sovrapposizione virtuosa fra l’ideologia più tradizionale e quella progressista dei tempi che corrono.
E allora la questione razziale (i soldati Jones e Poe sono neri e a suscitare la collera di Kidd è sì, la fuga della moglie, ma ancor di più che sia scappata con un uomo di colore) e della condizione femminile (Rachel Kidd è una donna libera, ribelle, capace di farsi beffe della morale ottocentesca della Frontiera e riscoprirsi suffragetta all’avvento del nuovo secolo) diventano centrali all’interno del racconto. Niente di sbagliato certo, eppure l’impressione è che tutto questo a Hill interessi relativamente e in fondo non aggiunga molto a un immaginario che è già stato percorso, scritto e riscritto includendo e riflettendo a più riprese – e secondo gli afflati politici del momento – anche su questioni come queste. Non solo negli anni della New Hollywood e del western civile peraltro, ma già in epoca classica, quando il western è stato capace di inglobare nella propria parabola anche le contraddizioni e gli stigmi che lo accompagnavano, così come il racconto del proprio declino.
Il risultato è dunque un film talmente ansioso di essere nuovo da non riuscire nemmeno a essere vecchio nel senso buono del termine (risultando più che altro superato) e nel quale al di là della messa in scena delle questioni citate resta ben poco da vedere. Persino l’immagine desaturata e artefatta del digitale (mai usato prima nel western da Hill, nemmeno in tv) appare piatta, slavata, incapace di infondere qualsivoglia profondità, anche estetica, al racconto. Ed è un peccato. Perché vedere anche un gigante come Walter Hill perdere la direzione proprio nel genere che più lo rappresenta e lasciarsi confondere da discorsi e dottrine distanti anni luce dal suo cinema e dalla sua storia immalinconisce un po’. O per restare in tema rende il tutto estremamente crepuscolare.