Persone normali in circostanze ordinarie, che però, per una serie di piccoli incidenti, delusioni, segni, sogni, fatti, intrecci, finiscono per diventare straordinarie. Come capita a tutti nella vita di tutti i giorni: una settimana nella vita di Abel, diciottenne alle prese con l’esame di maturità, di suo padre Gyorgy, un architetto conservatore, di Janka, la compagna di scuola e amica del cuore della quale Abel è innamorato, innamorata a sua volta di Jakab, il professore di storia liberale, e nelle vite delle rispettive famiglie, amici, colleghi, vicini, estranei, tutti interrelati dal lavorio dei media innescato da Erika, giovane giornalista di provincia approdata in città, che ascolta casualmente una conversazione in famiglia attraverso il cavedio al quale è affacciata per fumare. E intercetta la notizia che può migliorare la sua posizione nel quotidiano «Giorni ungheresi» al quale collabora: bocciato alla maturità in Storia, Abel lascia intuire al padre che la bocciatura dipende dalla coccarda tricolore rimasta casualmente sul risvolto della giacca dal 15 marzo, giorno della festa nazionale che celebra la Guerra d’Indipendenza ungherese del 1848.
Il professor Jakab gli ha chiesto perché la porta, racconta Abel, che in realtà abbiamo visto fare scena muta su ogni argomento. Gyorgy, che si è già scontrato con il professore in passato, abbocca e considera il gesto una scelta politica: infatti nell’Ungheria del 2023 la coccarda (fuori dal 15 marzo) è diventata il simbolo del nazionalismo di Orbàn. Quel nastrino tricolore (appeso per esempio allo specchietto retrovisore di un taxi) è il filo sotterraneo che collega le storie e le voci che si mescolano in Magyarázat mindenre - Explanation for Everything, terzo lungometraggio di Gabòr Reisz, che al Torino Film Festival vinse il Premio speciale della giuria e il Premio del pubblico nel 2014 con For Some Inexplicable Reason e una menzione della Giuria nel 2018 con Bad Poems.
Filo conduttore insieme, naturalmente, al disorientamento palpabile, all’inevitabile confusione, ai desideri espressi o repressi, alle ansie dei ragazzi sul limitare del passaggio all’età adulta, sui quali si apre il film, con un quadratino piccolissimo che via via s’ingrandisce fino a occupare l’intero schermo nero, nella lunga notte dei festeggiamenti post-diploma. E ai casini nei quali vengono trascinati da adulti che, nelle loro ipotetiche certezze, sono sempre più aggressivi e velleitari di loro e talvolta persino più maldestri. Partito con un «Lunedì: Abel capisce di essere innamorato», Explanation for Everything si sviluppa lungo i giorni successivi passando da un personaggio all’altro, senza additare nemici o “cattivi”: le certezze si sono sbriciolate (anche se talvolta sembrano ferree), gli ideali del ’56 occhieggiano da un lato mentre dall’altro resistono quelli dell’Ungheria comunista, ed entrambe le parti rivendicano quel concetto di patriottismo rappresentato dalla coccarda tricolore.
«Ci sono solo due categorie», dice Gyorgy. «I patrioti e i traditori». «Dimentica la terza: le teste di cazzo», risponde Jakab. Ma come si fa a spiegare a un diciottenne (a qualsiasi diciottenne) cosa significhino categorie che nei decenni si sono in mille maniere ibridate? E come si fa, anche, ad attribuire colpe a una giovane giornalista dalla faccia pulita che sta solo cercando un posto in un mondo che non ha un dress code (come dice a Erika il caporedattore) ma sconsiglia anche fermamente di andare alle riunioni di redazione con le scarpe da ginnastica? Con Abel e Janka e gli altri attraversiamo questa Budapest bella e quotidiana con la stessa leggerezza e lo stesso acume con cui attraversavamo la Tbilisi di What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze. Non perché i due film si somiglino stilisticamente: Gábor Reisz ha humour, leggerezza e la capacità di tenere insieme un racconto corale, ma non il gusto surreale quasi fiabesco di Koberidze. Eppure si percepisce la stessa sensazione di aria e abilità e libertà narrative nel suo film, che scorre instancabile per 152 minuti, senza mai, mai permetterci di staccarcene, stancarci, guardare l’orologio.