Mancano pochi mesi alle elezioni statunitensi, e Donald Trump è ancora lì, in corsa per la presidenza. Guardando Homegrown di Michael Premo, documentario in concorso alla Settimana della Critica, la prospettiva di una sua rielezione è ancor più agghiacciante. Seguendo alcuni dei suoi sostenitori, il regista newyorchese (in viaggio per gli Stati Uniti insieme alla moglie Rachel Falcone, che si è occupata del suono), ricostruisce la genesi dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021, uno dei momenti più drammatici della recente storia degli Stati Uniti. Vediamo da vicino – grazie alla capacità di Premo di stare insiemeai sostenitori di Trump e di immergersi letteralmente dentro le loro azioni – la complessa, talvolta paradossale, alchimia da cui questi fatti hanno avuto origine. E capiamo meglio, non senza sbigottimento, come quell’episodio eclatante affondi le sue radici in una lenta e inesorabile escalation di demagogia, di teorie complottiste, di slogan, in una violenza sempre più esplicita esercitata senza remore verso chi rappresenta un ostacolo al conseguimento dell’obiettivo di “sconfiggere il sistema” e di vedere Trump nuovamente presidente.
Con ampio anticipo rispetto ai fatti del 6 gennaio, Premo ha iniziato ad avvicinarsi ad alcuni rappresentanti dei movimenti di estrema destra, per capire cosa stesse dietro le manifestazioni sempre più frequenti in tutto il Paese. Era chiaro che qualcosa fosse nell’aria, ed era chiaro che, dopo l’uccisione di George Floyd e la crescita del Black Lives Matter, la pandemia, le proteste contro le restrizioni e la conseguente uscita allo scoperto di movimenti e milizie (come i Proud Boys, I Three Percenters, gli Oath Keepers), il clima politico e sociale fosse sempre più teso. Premo parte da qui, inserendosi come osservatore e interlocutore di alcuni membri di questa folla che è stata resa (mediaticamente) meno minacciosa dall’aspetto vagamente goliardico e tribale. Premo dapprima segue, quasi pedina i suoi personaggi. Li ascolta, e partecipa con la sua telecamera al crescendo di questa sorta di delirio collettivo tenuto insieme da un fanatismo tanto confuso ideologicamente quanto trascinante e pericoloso.
Chris, uno delle tre figure su cui il film si concentra, vive nel culto delle armi e vagheggia un’America great again. Ristruttura la casa e, mentre sistema la camera per il figlio che sta per nascergli, amplia lo spazio per custodire il suo arsenale di fucili da guerra. I suoi discorsi, così come quelli che il documentario intercetta, sono impregnati di razzismo, omofobia, suprematismo bianco, odio verso gli antifa e molto altro. Insieme a Randy e Thad, gli altri due militanti protagonisti del film, il Trump train arriva infine aWashington D.C.. Qui il ritmo del film, sinora regolare, cambia: seguire i manifestanti significa non solo condividere i momenti in cui, disinvoltamente, occupano la città con la loro carovana rumorosa, le birre e le bandiere, ma significa anche entrare sempre più nel vivo della violenza che ha portato all’irruzione alla Casa Bianca. Da osservatore che sa posizionarsi alla giusta distanza per filmare, Premo si ritrova dentro la folla, riuscendo a catturare alcuni dei momenti salienti dello sfondamento. Cade la distanza di sicurezza di chi filma, e il suo corpo (e la sua telecamera) sono letteralmente travolti dalla violenza. E nel momento cruciale, Premo inserisce per la prima volta il controcampo, ovvero il punto di vista dei poliziotti che filmano i momenti dell’assalto. Cadono tutte le barriere, anche quelle stilistiche del film, ed è giusto così. La forza di Homegrown sta non solo nell’aver documentato un lento e inesorabile movimento nel suo farsi (quasi del tutto sottovalutato dai media), ma anche e soprattutto nella capacità di adattare lo sguardo ai fatti. A rendere la gravità di questo momento, rendendo tangibile la minaccia che incombeva, e ancora incombe, sulla democrazia americana.