Concorso

I’m Still Here di Walter Salles

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Dopo le esperienze televisive e la recente incursione hollywoodiana Walter Salles torna in patria per raccontare una storia personale e concentrarsi su uno dei momenti chiave della storia sua e del Brasile. Un rimosso che fino a ora il suo cinema non aveva mai affrontato, ma con il quale ha finito per fare i conti: la dittatura militare.

I’m Still Here è tratto dal libro omonimo di Marcelo Rubens Paiva, celebre scrittore brasiliano, amico d’infanzia del regista e figlio di Rubens Paiva,ingegnere e deputato laburista, che racconta la vicenda del padre: desaparecido durante le feste natalizie del 1970 e poi torturato e ucciso brutalmente dalla polizia militare alcune settimane dopo. La moglie Eunice e i cinque figli di Rubens – fra cui appunto Marcelo, all’epoca dei fatti solo undicenne – hanno saputo la verità sulla sorte di Rubens solo trent’anni più tardi, nel 1996, quando il governo brasiliano redasse il certificato di morte dell’uomo e iniziò la ricerca e la persecuzione degli esecutori dell’omicidio (senza peraltro giungere ad alcuna condanna).

Che sia una storia personale e coinvolga il regista in prima persona lo si capisce sin da subito. Salles nella prima parte del film mostra infatti la vita famigliare idilliaca e quasi spensierata dei Paiva. Il racconto ruota tutto intorno alla splendida casa di famiglia, a due passi dalla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, e continuamente affollata di persone. Un luogo vivo, stimolante, ricco di energia e leggerezza. Un luogo che Salles ha frequentato da bambino e ricostruisce basandosi su ricordi filtrati da emozioni e memorie personali. Ma che con intelligenza sa rendere uno spazio simbolico, quasi spirituale.

Se da un lato una casa come quella – aperta a tutti, libera, piena di vita, cultura e amore – è la negazione stessa del concetto di dittatura, dall’altro la sua trasformazione va di pari passo con la distruzione del sogno e del progresso democratico del paese sudamericano. Con il graduale scivolamento verso gli inferi della vita famigliare – l’arresto di Rubens, quello di Eunice e della secondogenita Eliana (queste ultime poi rilasciate) e lo sprofondo economico e di status sia sociale sia politico conseguenti – lo spazio domestico muta infatti radicalmente. Perdendo la propria luce (il primo gesto che i miliziani fanno quando vengono ad arrestare Rubens è quello di chiudere le tende) e la propria ariosità diventando via via sempre più buio, angusto, silenzioso. E vuoto. Sarà quando avverrà l’abbandono della casa – con il trasferimento di Eunice e dei figli a San Paolo e la trasformazione dell’abitazione in un ristorante – a essere definitivamente sancita la fine di ogni speranza. Per il ritorno a casa di Rubens certo, ma anche per il proseguimento di un sogno, un’illusione di vita spensierata, innocente. Sia per giovani componenti della famiglia Paiva, sia per un paese che all’improvviso si stava rendendo conto di essere solo all’inizio di una storia terribile e sanguinosa destinata a durare a lungo.

Come lunga e tortuosa è la strada che Salles descrive per la fuoriuscita dal trauma della dittatura, da quel sogno di progresso, democrazia e maturazione culturale che il Brasile del secondo dopoguerra ha visto interrompersi bruscamente e troppo in fretta. Il racconto procede infatti per blocchi temporali, dal 1971 si passa al 1996 e poi al 2014, tappe di un percorso – lento, lentissimo – di superamento e allo stesso tempo comprensione del passato di cui Eunice Paiva diventa l’incarnazione più esplicita. La donna, che per tutta la vita ha combattuto sia per dare un futuro ai propri figli – laureandosi a 48 anni e diventando un’apprezzata docente universitaria e portavoce delle istanze delle popolazioni native dell’Amazzonia – sia perché fosse resa giustizia al marito, incarna non solo la tenacia, ma anche la necessità di un popolo-nazione intero di dover fare i conti con la propria storia. A qualunque prezzo e senza scenderci a patti con quella storia. E la vicenda di Eunice, su cui il film insiste, anche in maniera didascalica nella seconda parte è in effetti una lezione per tutti. Ma soprattutto lo è per quei paesi – compreso il nostro – che la dittatura l’hanno conosciuta da vicino e, in un modo o nell’altro, continuano a portarsela addosso.