Da sempre acute osservatrici della società e della cultura francese contemporanee, le sorelle Coulin tornano a otto anni di distanza dal loro precedente film di finzione, Voir du pays (2016), con un’opera che affonda lo sguardo in una delle questioni più controverse e scottanti della Francia – e dell’Europa – di oggi: la radicalizzazione estremista di destra. Tratto dal romanzo di Laurent Petitmangin “Quel che serve di notte”, Jouer avec le feu racconta la storia di Pierre (Vincent Lindon), vedovo cinquantenne che lavora come operaio delle ferrovie e vive nella periferia di Metz insieme ai due figli maschi, Felix detto Fus (Benjamin Voisin) e Luis. Mentre quest’ultimo, il più giovane, vista accettata la sua domanda di iscrizione alla Sorbona è in procinto di trasferirsi a Parigi, Fus non studia e non lavora, è attaccante in una squadra di calcio e frequenta un gruppo di ultrà della squadra locale, il Metz Fc. Qui stringe amicizia con alcuni ragazzi appartenenti a frange neofasciste che si riuniscono in un capannone dove organizzano incontri di pugilato clandestini e compiono scorribande per la città minacciando l’attività politica degli attivisti di sinistra. Quando Pierre, che appartiene alla tradizione operaia di sinistra e ha idee progressiste, viene a conoscenza della situazione resta scioccato e inizia a stare addosso al figlio in modo rabbioso e ossessivo. Causando una frattura che pian piano, complice anche la partenza di Louis per Parigi, diventa sempre più insanabile e porta a conseguenze estreme.
Sul piano della forma Jouer avec le feu è un film esemplare. Delphine e Muriel Coulin costruiscono un racconto solido, visivamente rigorosissimo e ricco di elementi espressivi perfettamente inseriti nel quadro. A cominciare dal modo in cui è organizzata la geometria degli spazi della casa dei protagonisti, tutta fatta di vetri che riflettono e moltiplicano le immagini, a rendere le personalità scisse e in conflitto di questi ultimi. O il modo in cui è usata la luce: invernale, obliqua e tagliente che crea un continuo effetto chiaroscuro in sintonia con il tono del racconto – dove il “nero” non è solo uno stato dell’animo ma assume una valenza politica. Ma la bravura delle registe sta soprattutto nel fissare l’obiettivo della macchina sulla famiglia, senza uscire mai dal rapporto fra Pierre, Fus e Luis. Quasi niente di quello che succede fuori casa viene mostrato, anche le azioni che hanno ricadute e conseguenze pesanti sulla vita dei protagonisti restano fuori campo, mentre i personaggi di contorno sono appena accennati. Una scelta che costringe chi guarda a rimanere attaccato alla storia, a condividere lo spazio conflittuale rappresentato dal nido famigliare.
Le dinamiche relazionali sono ben congegnate e appaiono chiare sin da subito, con la rappresentazione della famiglia come luogo in cui covano pulsioni incontrollabili e nascono pericolose incomprensioni. Mentre la presenza di un gigante come Vincent Lindon – che carica ogni gesto, dialogo e situazione narrativa di un côté espressivo straordinario – basta quasi da sola a rendere il senso del film. E in tal modo anche la dimensione politica che ruota intorno alla vicenda assume un valore più profondo. Non solo perché il tema dell’ascesa dell’ultra-destra all’interno della società francese contemporanea è una questione attualissima – alla luce anche dei recenti esiti elettorali che hanno infiammato lo scontro politico d’oltralpe – ma anche perché la violenza, tanto dei gesti quanto del discorso ideologico che stanno alla base dei comportamenti di Fus, emerge in questo modo in maniera ancora più forte.
Lo sguardo sulla società francese bianca inoltre – che vista da una prospettiva di questo tipo è piuttosto insolita nel cinema transalpino contemporaneo – appare lucido e spietato. Con la rappresentazione di una provincia sui generis come quella della Lorena: terra di mezzo e contesa fra due popoli, fieramente francese ma allo stesso tempo con una storia molto più giovane di quella di gran parte della Francia continentale. Ma anche di una classe media che si percepisce sempre meno centrale all’interno del discorso pubblico, che è facile preda di ideologie semplici come quelle intrise di populismo della destra estrema. E Fus, ventitreenne disoccupato e non portato per lo studio, perso dietro il calcio e la noia della provincia è in definitiva la perfetta sintesi, oltre che il simbolo, di tutto questo.
Nonostante qualche schematismo e un racconto freddo, quasi asettico e che forse avrebbe potuto osare un po’ di più soprattutto nella direzione del contesto politico – sullo stile del cinema di Brizé, cui evidentemente si ispira – Jouer avec le feu è un film solido e ricco di idee che mette il dito nella piaga di uno dei fenomeni più controversi e preoccupanti del nostro presente. Qualcosa con cui avremo a che fare per molto tempo ancora.