Holy Motors è visione senza fine né inizio, da riprendere daccapo, o dal mezzo, nel mezzo, dando nuove direzioni a linee che s’intersecano, come in un labirinto senza vie d’uscita.
Il tema del film è già inscritto nella sua genealogia. L'incipit è un'immagine-specchio che presenta gli spettatori di una sala cinematografica: un'inquadratura fissa che fa cortocircuitare schermo e oltreschermo. Si sta, a quel riflesso, come di fronte a qualcosa che sia già avvenuto, o a qualcosa di avvenuto che percepiamo, però, come se stia accadendo in quel preciso momento: un déjà-vu.
Carax ripropone quasi specularmente l’immagine di apertura di In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord.
Ora, però, rispetto all’originale gli spettatori hanno gli occhi chiusi. L’apocalisse c’è stata, la realtà è smaterializzata, e lo spettacolo ormai è sogno e guardiano del sonno della moderna società incatenata che non esprime altro che il proprio desiderio di dormire. Carax come Debord, che a sua volta riprendeva già Feuerbach, crede che nel suo tempo prevalga l’immagine sulla cosa, la copia sull’originale, la rappresentazione sulla realtà. Del resto come recita la prima tesi de La società dello spettacolo: «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (ibid. 2006, p. 53). Lo spettacolo dunque assurge a vera e propria visione del mondo oggettivata. «Non è la sovrastruttura della produzione esistente, non ne è l’elemento decorativo, è il cuore dell’irrealismo della società reale».
L’audio del film proiettato, che non scuote il pubblico dalla catatonia, sveglia però Carax addormentato in una camera d’albergo. Lo stacco di regia mostra il regista alla ricerca della fonte originaria di quel suono, che scopre provenire dietro una porta nascosta da una “selva oscura” raffigurata sulla carta da parati della stanza. Superata la soglia, lampi di luce elettrica illuminano l’ingresso nella sala cinematografica. Spazi e arredi altisonanti e tagli luce riportano immediatamente alla mente uno dei luoghi di culto della memoria spettatoriale: il Club Silencio di Mulholland Drive.
In Holy Motors, così come nell’opera lynchana, quello che avviene in questo contesto è totalmente irrelato nell’economia della trama. Perciò assume un’importanza di rilievo. Anch’esso funziona insieme come anticipazione e causa di uno sviluppo narrativo assolutamente imprevedibile che, invece di risolversi nel finale, porta a una moltiplicazione delle possibilità, a un riavvolgimento di quanto successo in una dimensione altra. Ma soprattutto nel gioco riflettente/riflessivo esemplifica lo statuto simulacrale dell’immagine cinematografica, il suo essere replicante, prodotto di meccanica ripetizione. Si costituisce come unʼevocazione metaforica del dispositivo cinematografico e del rapporto spettatoriale. Ecco che alla luce di questo trovano una loro giustificazione anche gli inserti cronofotografici di Étienne-Jules Marey: «scrittura fotografica delle modificazioni della forma in funzione del tempo» (Marey in Egidi), ovvero rappresentazione analitica delle fasi successive di spostamento di un corpo, attraverso la ripetizione delle parti in movimento.
Carax compie un’operazione citazionista che rievoca il senso dei détournements debordiani: riproposizione di “sequenze rubate” intrise di un nuovo significato, all’interno di una ricostruzione dal significato altro. Sfregio avanguardistico interpretabile come dimostrazione d’impudica indifferenza nei confronti del valore dell’autenticità.
A conclusione di questo prologo ad alta densità metadiscorsiva c’è lo sguardo in macchina di una bambina. Un gesto d’interpellazione spiazzante, incandescente, perché apparentemente privo di giustificazione diegetica; poi questo viene riassorbito all’interno dell’universo finzionale da un controcampo che ci rivela la sua vera natura: si tratta di un’immagine del film proiettato nella sala, sino ad ora tenutoci nascosto.
In quei brevi attimi che precedono la rivelazione, l’opera di Carax evade, straborda oltre i margini consentiti. Di fronte a quello sguardo che reagisce guardandoci ci scopriamo visti. Scopriamo la reversibilità tra noi e l’altro. Non c’è più uno spettatore che domina la rappresentazione, e la domina col suo occhio; c’è invece una circolarità di sguardi che fa del pubblico un elemento della scena e viceversa.