A volte capita di trovarsi di fronte a una scena che funziona da chiave di volta per l'intero film. Non si tratta di una scena madre, ma di una sequenza quasi di raccordo, apparentemente senza importanza, di preparazione a qualcosa che verrà dopo.
In Água e Sal (2001) Teresa Villaverde inquadra, senza muovere la macchina da presa, Ana (Galatea Ranzi) mentre al tavolino di un'osteria che affaccia sull'Oceano Atlantico, al tramonto, mangia ostriche e beve vino bianco. La sera ci sarà una festa di paese e lei è sola. Il marito, col quale è in crisi, e la figlia sono a Milano. La donna sta lavorando a un progetto su persone che, per motivi diversi, sono imprigionate: chi in carcere, chi prigioniero di una situazione, chi bloccato da un legame.
Qualche giorno prima, mentre era sulla spiaggia aveva salvato la vita a un uomo che stava per essere travolto da un motoscafo. Dopo un brevissimo scambio di battute i due si erano salutati. Quello stesso uomo, vedendola sola al tavolo del ristorante, le si avvicina e le chiede di poterle tener compagnia. Lei lo osserva con un po' di imbarazzo, lo invita a sedersi e a bere un bicchiere di vino, si tocca i capelli nervosamente, muove gli occhi, sorride, consapevole che tra di loro, già sulla spiaggia, si era creata una tensione difficile da dissimulare. In sottofondo la radio manda O que será di Chico Buarque - che nel film interpreta il ruolo di un vecchio amante della donna, di cui è ancora innamorata, benché si tratti di una storia senza futuro. La canzone di Buarque sembra il contrappunto perfetto alla scena che manca totalmente di controcampo: l'uomo che tanto turba Ana, infatti, non viene inquadrato, poiché la macchina da presa rimane sul volto e sui gesti della donna.
In un certo senso Água e Sal è un film privo di controcampo come lo è la sua protagonista, arrivata a un punto di stallo della propria esistenza: desidera separarsi dal marito ma non vuole perdere la bambina, non può tornare con l'uomo che ama, è indecisa se accettare la corte dello sconosciuto dal quale è attratta, aiuta un ragazzo follemente innamorato di una coetanea a rivederla, nonostante i parenti della ragazza glielo impediscano.
Ana è a sua volta prigioniera di se stessa, il suo volto, misterioso e bellissimo, non cela nulla di diverso rispetto ai visi che di giorno in giorno scruta per portare a termine il suo lavoro. Poche volte al cinema un campo privo di controcampo era stato così eloquente e di una bellezza tanto struggente, cogliendo, con grazia feroce, le incertezze e i desideri di una donna sola, i suoi enigmi e la sua natura inquieta. La Villaverde non spiega nulla ma lascia intuire che dietro il volto raffinato di Ana, dietro i suoi occhi mobili e i suoi gesti eleganti, c'è un al di là, che rimane fuoricampo, e che lo spettatore può solo intuire e sentire, se ha la fortuna di partecipare alle emozioni che muovono la donna, ma non può penetrare.
I sentimenti che scuotono Ana sono innanzi tutto misteriosi per la stessa protagonista: un grumo magmatico, interlocutorio, che non le lascia scampo, la tiene in scacco, ma rimane oscuro, in antitesi alla luce abbacinante che inonda il film. Quel che brucia, come il sale sulle ferite aperte, rimane all'interno di un flusso indistinguibile di sensazioni, dove gioia e dolore si confondono e si mescolano, come certe sostanze nell'acqua. Eppure le pulsioni contrapposte che, attirandola in maniera uguale e contraria, la lasciano in stallo, svelando che nel controcampo mancato è presente una carica conflittuale tutta interna, nascosta, che la sconvolge ma le permette al contempo di vivere, sono le stesse forze perennemente in lotta che rendono il cinema della Villaverde così potente e perturbante, pulsioni sempre sul punto di esplodere ma trattenute, prodigiosamente, a fior di pelle.