Parasol è un film basato sul concetto di ossimoro.
A cominciare dall’ambientazione (una Palma di Majorca deserta e irriconoscibile, culla del divertimento sfrenato che qui fa da sfondo a tre storie di dolente solitudine), l’opera di Valéry Rosier intreccia in contesti noti e riconoscibili figure e situazioni grottesche, accomunate dal disagio sociale ed esistenziale di individui senza alcun legame, né anagrafico né geografico.
Un adolescente inglese, un padre spagnolo e un’anziana signora belga trascorro alcuni giorni nella località balneare, senza mai incontrarsi o minimamente sfiorarsi. Eppure le loro vite sono tenute insieme da un senso d’insoddisfazione lacerante e invadente, contro il quale non serve da riparo neppure l’ombrellone che del titolo.
Il micro-mondo di Rosier vive in una bolla atrofizzata e sospesa in un immobilismo (emotivo prima ancora che stilistico) senza tempo, che restituisce la metafora di una campana di vetro scintillante all’interno della quale viviamo spesso intrappolati. Il giovane regista belga lavora sulla geometria delle inquadrature e sulla fluidità del montaggio (in questo senso sono folgoranti i titoli di testa) utilizzando l’impianto cinematografico per dare vita a una realtà tanto concreta quanto favolistica.
Ognuno dei suoi personaggi prova a evadere da un paradiso in terra che assume le fattezze di un vero e proprio inferno, sente il bisogno di sradicarsi dalla monotonia di una vita ordinaria. E proprio le scelte più insensate porteranno a conseguenze più o meno positive, lasciando così un piccolo anelito di speranza a un finale forse accomodante, ma funzionale ed efficace nell’impianto visivo.
Temi e situazioni già abbondantemente approfondite dal cinema: eppure è anche per questo che Parasol risulta sorprendente, perché in grado di proporre una variante calzante e pertinente al tema eternamente presente dell’alienazione e della solitudine nei non-luoghi della contemporaneità.