Non è un amante del cinema pulito, limpido, e delle riprese affettate, Martijn Maria Smits. Il suo Waldstille lo dimostra. Lo spettatore non viene in alcun modo preso per mano, accompagnato nella storia: deve saper ricostruire, saper cogliere e capire da sè; il suo occhio non viene "coccolato", ma lasciato alla fastidiosa sensazione – totalmente appartenente alla realtà – di non riuscire a vedere tutto. Il principio è, in sostanza, come afferma lo stesso regista, quello di un puzzle a cui manchino alcuni tasselli: la figura d'insieme risulta chiara, basta uno sforzo mentale dell'osservatore.
Così il film, diviso in tre capitoli (un primo legato al fatto, seguito da un "ritorno" e un "riavvicinamento"), racconta la colpa di un uomo, l'essere stato alla guida dell'auto e l'aver causato l'incidente che ha portato alla morte della compagna, ma lo fa senza mostrare il momento culminante. Lo scontro, la paura, il caos, i soccorsi, niente di tutto questo viene posto davanti agli occhi dello spettatore, eppure, dopo uno stacco di alcuni secondi (completamente al buio), non c'è nessuno in sala che non abbia capito.
Lo stesso procedimento, Smits lo segue per il ricongiungimento con la famiglia della defunta – non vediamo nulla che porti effettivamente alla passione tra il protagonista Ben (Thomas Ryckewaert) e la "cognata" Debbie –, e con la figlia, Cindy (e non si sa come abbia ottenuto il permesso di incontrarla, dopo anni di divieti da parte dei nonni). E ancora, nel finale, con l'improvvisa scomparsa di Ben dalla scena, dal ristorante, e la comparsa della famiglia materna della piccola Cindy. Da chi sono stati chiamati?
Visivamente tutto questo si riflette in innumerevoli riprese di spalle, in cui i corpi (soprattutto quello di Ben) ostruiscono la visuale; e di nuche, dietro le quali si celano volti ed espressioni che ci si aspetterebbe di dover osservare, per comprendere. A primissimi piani su oggetti insignificanti che quasi infastidiscono l'occhio, si alternano a campi più o meno ampi, ma sempre di visuale limitata, ostruita dalla presenza di pareti, porte, oggetti ingombranti.
"Per fare un puzzle con tutti i pezzi, basta magari un giorno, per farne uno con dei tasselli mancanti, ci si può impiegare una settimana, ed è nel tempo occorso che poi risiede il vero valore del gesto", sostiene Smits. E così, per uno spettatore, Waldstille può essere un film da metabolizzare, ma ben presto ci si rende conto che è nelle sue mancanze che sta la sua stessa forza. Ciò che viene tolto agli occhi, viene lasciato alla mente, agli interrogativi (fa bene Ben a imporre la sua presenza? Ed è giusta la scelta di allontanarsi?) e colpisce più a fondo. E Waldstille è certamente un film che sa colpire.