Fale è un piccolo film di poco più di un’ora, un raccontino composto, onesto, con facce perfette e una costruzione misurata. E non è poco. Tanto più se si tratta di un’opera prima che di questa grazia modesta ma precisa fa il suo tratto distintivo. Il regista polacco Grzegorz Zariczny conferma il talento che lo aveva fatto notare con il corto Gwizdek (2012) vincitore, tra i molti premi, anche del riconoscimento come miglior cortometraggio al Sundance riuscendo a coniugare, in questo suo esordio nel lungometraggio, la forma indie a un’apprezzabile capacità di non cadere in cliché e formule largamente codificate.
Ania e Kasia sono due diciassettenni che frequentano un corso per diventare parrucchiere e cercano di resistere alla noia mortale che regna sovrana nel quartiere dove vivono alla periferia di Cracovia; sbadigliano, si decolorano i capelli, fumano, si fanno i piercing, parlano di nulla, fumano, giocano, tornano in case dove sentirsi accolte non è scontato, escono, ridono, fumano, sbadigliano, fanno il bagno insieme giocando con la schiuma del sapone.
E un coming of age in piena regola Fale ma sfugge le insidie di quello che è diventato uno dei “generi” prediletti per gli esordi cinematografici indipendenti. Zariczny riesce infatti a non forzare la mano mai e con modestia non cerca inutili esibizioni ma vuole piuttosto che lo spettatore si affezioni alle sue cicciotelle e sgraziate parrucchiere. Evita di esplicitare un ipotetico sotto testo omoerotico, evita di cadere nella trappola di un paternalismo rovesciato in cui sono i figli a far la morale ai genitori, evita di calcare sulla desolazione della marginalità dell’ambiente urbano. Si ferma infatti con delicatezza (e con intelligenza) sempre un passo indietro, senza dire in fondo nulla ma caratterizzando tutto e trasmettendo con sensibilità narrativa il senso di un tempo che non guarisce perché non c’è nulla da guarire. Un tempo dominato dall’inadeguatezza e dall’apatia quello che affrontano Ania e Kasia nel cercare di passare all’età adulta, un tempo senza personalità al quale bisogna, “semplicemente”, imparare a dare un senso, anche attraverso la presa di coscienza dei fallimenti dei genitori. Le famiglie disfunzionali alle quali le due ragazze appartengono non sono infatti raccontante con toni accusatori; si tratta di figurine schizzate con un tocco leggero senza volontà di giudizio, sono persone in difficoltà, nulla più, certo vittime delle loro debolezze ma non colpevoli. Ancora una volta è il senso di inadeguatezza quello che domina, un’inadeguatezza profondamente umana che è quella alla quale le due ragazze, ognuna a su modo, cerca di capire come – e se può – reagire.
Un po’ come le onde del titolo, quelle che le due ragazze devono imparare a fare sulle testine da acconciatura (notevoli le sequenze alla scuola di parrucchiere), Ania e Kasia cercano di capire come adattarsi, come orientarsi, come riconoscersi in quello che fanno, nello spazio in cui si muovo, fluttuando nell’immobilità generale, cercando di salire su una rampa che sembra troppo alta. E perseverano, in fondo è quello che conta, dovendo imparare, “semplicemente”, a vivere.