Uno dei film scelti per la rassegna "Cinema (di)vino" è Sideways – In viaggio con Jack (2004) di Alexander Payne, buddy movie on the road tra i vini della Napa Valley in California. Su «Cineforum» n. 443, aprile 2005, ne scriveva così Paolo Vecchi, critico cinematografico ma anche grande amante del vino, citando un altro autorevole esperto in materia come Gianni Mura, e sottolineando il confronto latente nel film tra America ed Europa (dal vino al cinema alla cultura).
Lo schema narrativo di Sideways – due amici che si ritagliano una settimana on the road per dare senso all’addio al celibato di uno di essi, oltre che per fare il punto delle rispettive situazioni esistenziali – è di quelli collaudati ad abundantiam. Anche i caratteri dei protagonisti si inseriscono in una tipologia più volte frequentata. Miles, un intellettuale con ambizioni letterarie frustrate, trascina con sé dentro due scatole da scarpe il dattiloscritto del fluviale romanzo che nessun editore prenderà mai in considerazione. Colto e sensibile, non si è ancora rimesso dall’abbandono della moglie, che continua a tormentare con telefonate ad elevato tasso etilico nonostante la donna, nel frattempo, si sia, come si dice, rifatta una vita. Jack, una sorta di Schwarzenegger da soap opera, è il suo alter ego speculare e insieme complementare: puttaniere grossolano e insaziabile, drogato da un vitalismo che trova nel suo sorriso a sessantaquattro denti l’emblema ricorrente e l’arma di seduzione, è tuttavia vicino alle cose, attento alla loro sostanza, anche se il suo lasciarsi guidare dall’istinto gli preclude una loro sistemazione secondo una scala di valori poco più che elementare. In questo senso, dunque, sia pure in maniera un po’ schematica, egli incarna il pragmatismo americano, mentre nello stesso modo Miles disegna la caricatura di un americano che gioca a fare l’europeo. Il loro viaggio si caratterizza come iniziatico per entrambi: al vino – cioè alla cultura – per l’uno, al sesso – cioè alla natura – per l’altro. In questo prevedibile e meccanico gioco delle parti fra trivialità ed esprit de finesse, su uno sfondo di riferimento ormai depauperato di qualsiasi apparato simbolico, sia pure con diverse modalità e resistenze, scatta per entrambi la ricomposizione nella coppia come rifugio e luogo della sopravvivenza.
Niente di nuovo, come si diceva all’inizio, e non solo per quanto riguarda i tanti buddy movies ai quali ci ha abituato il cinema d’Oltreoceano: più di un critico ha giustamente chiamato in causa la coppia virile che, a partire da quella archetipica del Sorpasso, caratterizza una parte cospicua dell’opera di Dino Risi (ovviamente, se ne valesse la pena, potrebbero essere tirati in ballo anche archetipi letterari: buona parte di Henry James, da un lato, il Sinclair Lewis del sempre gagliardo Dodsworth dall’altro).
L’originalità del film di Payne consiste semmai nel rifiuto dell’iconografia della California imposta dalla lunga tradizione a cui, sia pure in maniera obliqua, fa riferimento. Miles e Jack, invece che sulle highways celebrate da Kerouac e Dylan, si muovono infatti lungo le poco frequentate strade laterali a cui rimanda il titolo, in quella Napa Valley nella quale un lungimirante ungherese ebbe l’intuizione di trasferire alcuni nobili vitigni europei che dal nuovo terroir derivarono impensabili sfumature di gusto e profumi. Nel raccontare questo paesaggio sostanzialmente inedito, pur nella pratica di una scrittura che oscilla tra sciatterie off Hollywood e la corriva esibizione dello split screen, il regista trova un’indubbia felicità di tocco. Se i filari di Syrah e Chardonnay rappresentano il côté europeo alto, facendoci riandare alla Langa o all’Alsazia, il resto rimanda fatalmente alle scimmiottature di Europa perpetrate nei piccoli centri della zona. Ristoranti con pretese di gastronomia d’eccellenza e carte dei vini a livello, bar in cui sussiegosi sommelier raccomandano e mescono le ultime uscite enologiche di un certo interesse, locali di degustazione nelle cantine produttrici, gestiti solitamente, et pour cause, da donne affascinanti (da frequentatori di lungo corso, possiamo confermare la veridicità, forse programmata o forse semplicemente “naturale”, di questa simbiosi vino-bellezza), ma anche meta di pittoresche carovane dell’alleluja di anziani in gita, velocissimi a precipitarsi con atteggiamento rapinoso su bottiglie e buffet, oltre ad essere tappe obbligate del tragitto di Miles e Jack, offrono certo un quadro della globalizzazione (probabilmente anche in Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda, mutatis mutandis, la scena è la stessa) ma segnalano anche impietosamente il ritardo del Nuovo Mondo rispetto a secoli di tradizione e cultura della nostra parte dell’Oceano.
Questo mosaico, variegato e interessante nella sua “volgarità”, interagisce coi caratteri dei personaggi, funzionando talora da contrappunto, talatra da sottolineatura. Dosando con accortezza distacco e partecipazione, Payne e il suo sceneggiatore Jim Taylor spingono talvolta sul pedale della trivialità, come nella sequenza del coito tra i due vomitevoli ciccioni, che allude ad una ben più generalizzata situazione – la sintonia tra vertici dello stato e sentine dei bar –, nella quale, mentre la moglie fedifraga sbatte in faccia al marito il suo «Quando mi hai scoperto ho goduto», la televisione manda in onda un’altra coppia oscena, quella costituita da Bush e Rumsfeld.
In Amsterdam, un romanzo decisamente minore di Ian McEwan, due amici provano a riallacciare un rapporto ormai logorato, ma la rimpatriata finisce in lite, tanto che uno accusa l’altro di essere venuto in casa sua a insultarlo nonostante gli sia stato offerto un paio di bottiglie da centodieci sterline l’una. Qualche riga dopo, il rancoroso anfitrione spiega trattarsi in entrambi i casi di grand cru di Borgogna, rispettivamente uno Gevrey-Chambertin e un Richebourg. L’episodio ci è venuto in mente quando, in Sideways, Miles, gironzolando per la casa di Stephanie, ha libero accesso alla cantinetta della donna, che si rimangia poi la parola quando è appunto un Richebourg ad uscire casualmente come prima scelta.
Il vino assunto come parametro, come scala di valori, infine come metafora di una situazione esistenziale, ci sembra uno degli aspetti più interessanti del film di Payne. A partire dall’atteggiamento di Miles, in parte condiviso da Maya. Il protagonista infatti assomma su di sé buona parte di quei caratteri negativi che, per esperienza diretta, sappiamo affliggere molti aspiranti alla qualifica di sommelliers, assaggiatori e affini. I quali sono troppo spesso dei sussiegosi rompicoglioni, che forse conoscono il vino ma probabilmente non lo amano, insopportabilmente votati come sono alla classificazione minuziosa e dettagliata piuttosto che all’ineffabile piacere della bevuta, si consumi nella più distesa convivialità o in una solitudine meditativa al limite dell’ascesi. In questo ci conforta l’autorevole Gianni Mura che, in un suo articolo che da Sideways prende spunto, scrive: «Se vado al ristorante o in osteria, al tavolo vicino parlano di Guyot speronato, di marne mioceniche, di degustazioni orizzontali,verticali, cieche, di soggiorno del mosto sulla feccia, dibattono a lungo sulla presenza o meno d’un 5 per cento di Syrah. Per me, gli uomini conoscono i vini come i cani gli uomini, annusandoli. E poi assaggiandoli... Giunto abbastanza felicemente alla soglia dei 60 ho deciso di fare tabula rasa, di non unirmi al crocchio degli analisti, dei sotutto, dei periti autoptici. Al piacere della conoscenza anteporrò la conoscenza del piacere».
Quello giustamente stigmatizzato dal post-breriano esegeta di calcio e ciclismo, foie gras e Barbaresco, è un atteggiamento abbastanza recente, certamente nevrotico, in base al quale la tendenza alla devitalizzazione dell’oggetto del desiderio non è dissimile da quella dei collezionisti, che possiedono non in funzione d’uso ma di rassicurazione. Coerente con tale weltanschauung basso-enologica è anche il puntiglio di Miles nel declinare verità perentorie e assolute, come la supremazia del Pinot noir, peraltro indiscutibile re di Borgogna, e l’abominio per il “ruffiano” Merlot. «Probabilmente non ha mai bevuto un Masseto, o il Merlot di Miani, di Radikon», chiosa ancora Mura. A noi, forse volando troppo alto rispetto alla bisogna, piace riandare al sempiterno Sherwood Anderson di «Winesburg, Ohio»: «Era sua opinione che quando qualcuno s’impadroniva di una verità, e diceva che quella era la sua verità e si sforzava di vivere secondo essa, allora costui si trasformava in una caricatura, e la verità che egli abbracciava, in una menzogna».
In effetti, il protagonista è un alcolizzato, cioè esattamente il contrario di un amante del vino. In modo significativo pur se un po’ troppo sopra le righe, egli conclude un imbarazzante show down portandosi alla bocca il recipiente che serve ai visitatori di una cantina per sputare gli assaggi, quasi a volersi punire con l’oggetto degenerato del proprio amore.
Pertinente ancorchè velleitario appare tuttavia il suo identificarsi col Pinot noir, un vitigno notoriamente difficile perché delicato e sensibile alle intemperie, ma dal risultato incomparabile una volta portato a giusta maturazione. Ed efficace, sempre sul piano della metafora, la decisione di consumare il mitico Cheval Blanc – «un des deux crus les plus prestigieux de Saint-Emilion» – in un triste McDonald, usando per di più un bicchiere di cartone da Coca Cola. Dietro questo soprassalto da pre-finale c’è ovviamente il consiglio di Maya, di non cercare l’occasione per bere un grande vino perché è sufficiente la bottiglia stessa a creare (o comunque giustificare) l’evento. Ma anche, sull’esempio di Jack, la volontà di “sporcare” il sublime che viene dall’Europa con una “sana” trivialità a stelle e strisce.