Quella di Don Cheadle si presenta come una delle opere prime più interessanti del recente cinema americano contemporaneo. Con Miles Ahead – di cui è regista, attore, co-sceneggiatore e co-produttore – Cheadle non solo firma un riuscito ritratto di Miles Davis, uno dei maggiori artisti del XX secolo, ma infrange coraggiosamente i canoni del genere biografico, arricchendo di nuove ipotesi narratologiche un filone tendenzialmente stagnante.
Distaccandosi da un racconto in progressione lineare, Cheadle incentra il film su un periodo specifico della carriera di Miles Davis, i cinque anni di assenza dalle scene a metà degli anni Settanta durante i quali il jazzista, affetto da malanni e dal riacuirsi della dipendenza da alcol e droghe, è vittima di una grave depressione. Discografici, manager concorrenti e giornalisti in cerca di scoop bramano il nastro su cui il trombettista sta lavorando, frutto di una vena creativa ancora non del tutto esaurita pur se notevolmente affaticata. Oggetto di culto antemortem trafugato dalla casa-mausoleo in cui l’artista si è recluso, la mitica sessione di registrazione che avrebbe segnato il ritorno del musicista (rimasta fino a oggi inedita), funge in realtà da vero e proprio MacGuffin, espediente narrativo per dare continuità alla trama.
Ciò che preme al regista è invece allontanarsi dalla facile mitizzazione dell’artista, intraprendendo un percorso critico più accidentato. Il Miles di Cheadle, la cui caratterizzazione parte da episodi biografici reali per arrivare alla fiction, è un uomo sboccato, violento e paranoico; poco più di un gangster dal grilletto e dal pugno facile, ossessionato dal bisogno di stupefacenti e dai fantasmi di una vita che rivive a sprazzi nei lunghi flashback. Un personaggio alla Richard Widmark, tutt’altro che eroico, attanagliato dai suoi errori e in costante fuga da se stesso.
Ma come dimostra l’ultima inquadratura, nella quale Cheadle interpreta il musicista in un’esibizione dal vivo al fianco di Herbie Hancock, Wayne Shorter e Gary Clark Jr, quasi a voler riabilitare la figura di Miles Davis, il suo film non vuole condannare l’uomo, bensì offrire un ritratto a tutto tondo della sua personalità, più complessa e articolata di un’immagine da copertina.