Il pericolo comune dei documentari a tematica sociale è quello di scadere, spesso involontariamente, nella retorica delle analisi, trasformando originali spunti di riflessione in ripetizioni pedisseque di schemi e argomentazioni diffuse. Se questo da un lato non impedisce di dar voce a questioni spesso note a livello generico, dall’altro non aggiunge molto a quanto già conosciuto, non uscendo mai dal seminato di un immaginario assuefatto da un bombardamento mediatico quotidiano. In tal modo, invece che sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni affrontate, i documentari sociali rischiano di assuefarne o appiattirne l’interesse, rendendo il gesto cinematografico inefficace.
È quello che succede in Walls di Pablo Iraburu e Migueltxo Molina, dedicato al tema dell’immigrazione irregolare, del valico di muri e confini, e incentrato sulle vicende di alcuni clandestini che diventano figure-tipo di intere popolazioni in fuga dai propri Paesi, verso un futuro presumibilmente migliore.
Le barriere che separano Marocco e Spagna, Messico e Stati Uniti o Zimbawe e Sud Africa, si fanno ogni anno per migliaia di profughi ostacoli più o meno inespugnabili, marcatori di differenze e baluardi difensivi di equilibri economici e sociali e stili di vita privilegiati. Tutto dipende dal punto di vista.
Il lodevole intento dei due registi di affrontare il tema dalle due parti in causa – quella dei migranti e quella dei guardiani che per dovere professionale sorvegliano i varchi che collegano due limiti territoriali – mette in luce le rispettive ragioni opposte e complementari, senza tuttavia andare oltre la constatazione dell’irrazionalità della situazione attuale.
In tempi in cui la geopolitica si dimostra bisognosa di un aggiornamento alla luce degli avvenimenti su scala globale, Walls può essere sì una sorta di valore aggiunto al dibattito, ma non esce dalla logica dell’inchiesta televisiva, in cui tutto è finalizzato a una discussione da salotto invece che a interventi concreti a livello istituzionale. E finisce per essere un’incalzante voce monitrice, sempre in bilico tra speculazione emotiva e mobilitazione della coscienza spettatoriale, finalizzata a se stessa più che alla proposta di soluzioni a questioni oggi più che mai necessarie.