Il film di Cristi Puiu inizia, naturalmente, con un lungo piano sequenza in esterni; resta lontano dai personaggi che parlano, si muovono, parlano, vanno, ritornano ma nulla si capisce realmente di quello che si stanno dicendo, di chi siano e di cosa stiano facendo. E in fondo non importa. Lì fuori, per strada, inizia quella magnifica coreografia che è Sieranevada (con una r sola). La danza si sposta presto in interni, attraverso un breve ma densissimo di parole viaggio in un’automobile, dentro l’appartamento da cui non si uscirà più, o quasi. La casa è quella di Emil e di sua moglie Nusa e la famiglia è riunita per commemorare, come vuole la tradizione, la morte di Emil, avvenuta quaranta giorni prima. Ci sono figli, mogli e mariti, nipoti, cugini, amici, vicini di casa, intrusi imprevisti... Chi è chi in fondo non importa, sono tutti lì in quello spazio chiuso in attesa del prete che celebri il rito per poi mangiare tutti insieme.
Puiu non vuole davvero costruire un racconto, lo dice fin da quella prima inquadratura: non importa davvero chi siano i personaggi e quale sia la loro storia, importa osservare il loro mondo come se si guardasse all’interno di un diorama in movimento.
Uno dei concetti più interessanti alla base delle non poche analogie esistenti tra il cinema e l’architettura è, d'altronde, quello di "passeggiata". Si passeggia e muovendosi si percepisce la specificità del frammento con cui in quel momento si entra in relazione. Frammenti che si percepiscono e che si ricompongono nella strutturazione dello spazio come del racconto. E mai come in questo film lo spazio e il movimento sono il racconto: la macchina da presa di Puiu - e lo spettatore con lui - non solo passeggia ma danza in quegli interni o meglio osserva i personaggi che le danzano davanti; figurine tenute come in cattività nel loro piccolo mondo (come piccolo è il mondo di ognuno di noi) dall’attesa, dal rito, dalla memoria, dalla famiglia, dalla tradizione, dalla religione, dalla storia, dalla tecnologia, dall’informazione, dai sentimenti, dalla nostalgia, dalla fame.
Le porte dello spazio stretto dell’appartamento si aprono e si chiudono mentre i personaggi, sempre di più, con le parole e con il movimento dei loro corpi, lo occupano fino a saturarlo. Per questo ogni tanto qualcuno si chiama fuori, prende una pausa, entra in un’altra stanza che svela un altro risvolto di quello spazio fisico e memoriale, oppure ci viene cacciato a forza oppure ancora, aspetta sul pianerottolo o va a fare la spesa. In ogni caso poi rientra perché quello è il mondo, e dal proprio mondo non ci si chiama fuori poi tanto facilmente. Anche se tutto è fracassato, anche se non vale più nulla, anche se nemmeno il tanto atteso pope in fondo crede poi del tutto in quello che sta dicendo, anche se poi in fondo i segreti degli altri si conoscono, anche se poi in fondo la tradizione non conta, anche se poi in fondo si ha solo fame.
Lo dice Puiu con la sua magistrale consapevolezza registica. I piani sequenza infatti, quelli che trasformano lo spettatore nell’osservatore curioso di questo balletto che a tratti non gli sta più solo davanti ma proprio tutto intorno, quelli che lo fagocitano come se fosse lui stesso un convitato, improvvisamente vengono interrotti, a più riprese, con stacchi repentini e imprevedibili che sbattono altrove lo sguardo e la possibilità di orientarsi, di abitare quello spazio e quel mondo. Perché non è possibile orientarsi, si può solo spostarsi continuamente, pur senza uscire, dimenarsi nella confusione, nel nervosismo, nella frenesia, nelle convinzioni sulle quali è meglio non interrogarsi. Si sopravvive, muovendosi senza sosta